Decostruzione – Ha senso come
all’origine, nei primi scritti di Derrida, come proposta di traduzione dell’opera
demolitoria di Heidegger sulla metafisica, da Heidegger detta Abbau e Destruktion.
Derrida trovava l’equivalente latino troppo negativo e unilaterale. Propose dapprima
“sradicamento” e “demolizione antagonistica”. Poi optò per “decostruzione” perché
a doppio senso: di disorganizzazioni, scomposizione, e anche di ricomposizione.
Il processo di decostruzione è una costruzione: ha utensili limati e allenati,
una tecnica, e un progetto.
Derrida – Il filosofo si
può dire di seconda mano, “parassitario”. Più precisamente saprofita - un
saprofita killer, nutrendosi, se non proprio delle carogne comunque dei cadaveri,
che lui stesso ha provveduto a disanimare e sezionare.
Enigmatico – Enigmista? È uno
stato o una creazione?
Linguaggio – È, è
diventato, chiave-grimaldello di manipolazione della riflessione, compresa
l’ontologia. In circolo vizioso, il linguaggio manifestandosi via via sempre meno
significante, allusivo, inconclusivo – insignificante, se non come procedura.
Fenomenologia, strutturalismo, semiologia – il Seyn di Heidegegr, Derrida “orale” (il teorico della scrittura), l’Umberto
Eco sistemico tra i più citati (anche letti? analizzati?). Il professante
Wittgenstein se ne teneva a distanza, rispettoso.
Marinismo
–
Ha un distinto sentore di marinismo, a distanza, la filosofia del Novecento, da
Husserl a Heidegger e Derrida. Per nessun motivo specifico ma per il gusto di
meravigliare sottilizzando, tra agudezas
e distinguo interminabili. A fini di
verità, beninteso, ma senza nessuna verità, se non il diniego – il diniego
assoluto facendo valere come prova pratica di scetticismo. La filosofia come
opera concettista – o come le “preziose” di un secolo dopo in Francia: una
costruzione che tanto più si apprezza quanto più si assottiglia e vaga, che
parte o approda sempre a un concettino o agudeza,
ornandolo di metafore continuate – nel mentre che le nega - e altre figure
retoriche. Appassionante, forse, per un perito filologo, ma a nessun esito. Non
di verità, se non che non c’è verità. Un po’ divertente, decostruire è
divertente, ma poi non appassionante.
Narcisismo
–Sarà
il segno dell’epoca, dei social, e dell’occhio incollato su face book, visto
come uno specchio e non una finestra sul mondo. Del narcisismo prima maniera di
Freud, della libido che si concentra sull’Io. Di cui però – Freud ha mancato di
indagarlo – non si ha o non si dà la consistenza: è un direzione e un vezzo.
Scrittura
–
Derrida ne celebra l’attrattiva per il suo assunto basico (preliminare) della
“indecidibilità”. Dell’indefinitezza, dell’indeterminatezza. In un primo
momento. Poi della non appartenenza al soggetto, all’autore, rovesciando di
segno il “performativo” del linguista di Oxford John Lanhshaw Austin, dalla “aberrazione”
al linguaggio comune. Grazie alla “iterabilità” della scrittura. Alla sua
autonomia dal soggetto (autore): come scambio, e come citazione e innesto.
Traduzione – È l’esercizio
pratico, comune, della decostruzione. Chi traduce deve in continuazione
scomporre e ricomporre, concettualmente, verbalmente, anche solo ricorrendo al
dizionario bilingue o al vocabolario.
Tribalismo
–
A lungo rimosso o negato, per immotivato rispetto dei diritti umani, torna trionfante
nel millennio, sotto il nome di identità e comunità, e sul piano politico con i
sommovimenti populisti,che vi fanno largo ricorso – Brexit, sovranismo, America
First, putinismo.
“Gli europei erano convinti che gli
africani appartenessero alle tribù”, può spiegare John Iliffe, lo storico,
ancora recentemente, “gli africani costruirono le tribù cui appartenere”. È una
spiritosaggine, per figurare nell’antologia 1983 di Hobsbawm e Ranger,
“L’invenzione della tradizione”, di un decostruzionismo un po’ abusivo: riusciva
a spogliare i già poveri africani anche della tradizione – vero è solo che il
colonialismo si assestò sugli assetti tribali come cinghia di trasmissione per
i propri assetti di potere: capi e capetti, e cerimoniali e codici etnici e
localistici, talvolta di comodo o morti. Ma il tribalismo non è mai morto nella
civiltà, colonialismo e imperialismo compresi.
C’è stato a lungo nel nazionalismo. E prima
nella religione – dove c’è tuttora, nell’islam. Per il Dio unico della Bibbia,
l’unico “Dio degli eserciti” fra i tanti “buoni”, nota Simone Weil sconsolata - la filosofa, si noti, delle radici. Ma
è anche il misticismo senza Dio, in musica, filosofia, teologia, cose nobili ma
senza Redenzione.
L’identità torna nella vertigine di particolarismo,
noi e gli altri - il resto del mondo cioè – quale specialità o eccezionalità di
stirpe e destino. Non monolitico, il tribalismo esige sottostirpi e sotto
destini, quali si teorizzano ancora nel millennio.
È anche stimolo alla diversità, bene risorgente.
“Uno zulu non amerebbe essere un anglobritannico, e neanche un afrikaner”. Lo
sosteneva il “dottor Malan”, Daniel François Malan, il primo ministro del
Sudafrica dal 1948 al 1954 che instaurò l’apartehid,
e quindi è sospetto. Ma è un fatto. La tribù è un fatto e una logica: è via di
mezzo tra l’etnocentrismo, o assimilazione, e il relativismo culturale. Si lega
alla terra e al sangue, ma più alla storia, e smantella il conflitto quale si
configura oggi, tra Nord e Sud, compreso il razzismo antirazzista. Non è un
confine, che possa per esempio destinare l’Africa all’indigenza e alla
violenza, e può essere un collante.
Si vede meglio in America, negli Stati
Uniti. L’America segue uno speciale percorso, forte di amor patrio oltre che di
leggi, essendo nazione fra i ghetti, per i neri pure e i pellerossa, e ora per
i latinos. I dannati dell’Europa e
dell’Asia l’hanno formata, e gli schiavi dell’Africa, e ne ha soverchiato gli
odi nella lotta per la sopravvivenza – per molto meno le tribù europee, non
così povere e perfino colte, si sono fatte la guerra per quindici secoli. C’è
un Nord ancora feroce, per essere il Sud dago, latino cioè, cattolico e
bruno, o protestante rosso di pelo e povero. E nero o ebreo. Ma è un Nord fatto
di gente spesso del Sud. I bianchi poveri odiano i neri come odiano lo yankee di città, e gli ebrei. Tutto resta etnico nel centro della modernità, abbigliamento,
capelli. danze. Ma dalle gerarchie passa alla diversità.
Yo-yo
di Eraclito –
Rivive in una lettera dello scrittore Paul Auster, che ripubblicandola in
“Diario dell’interno”, lo fa seguire da questa nota: “Riferimento a uno dei più
noti frammenti di Eraclito: «L’ascesa e la discesa una e stessa cosa»”.
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