Un processo staliniano a
Parigi, nel 1949. Che il partito Comunista francese, rappresentato dallo
scrittore Aragon, affrontò – e di fatto vinse – a difesa di Stalin. Di cui la storia
non si fa. Eccetto questo vecchio resoconto, opera a suo tempo di una russa emigrata,
la narratrice Berberova – si ripubblica la vecchia traduzione del 1990 con una
presentazione di Belpoliti.
Viktor
Kravčenko, ufficiale dell’Armata Rossa, diplomatico sovietico a Washington, aveva
defezionato nell’aprile del 1944, richiedendo asilo politico negli Usa. Un anno
e mezzo dopo, a febbraio 1946, aveva pubblicato “Ho scelto la libertà”, una
testimonianza contro il regime staliniano, del terrore e del Gulag, contro
comunisti invisi all’autocrate. Non era una novità, Koestler l’aveva preceduto
di un anno, con “Zero e l’infinito” (e Boris Suvarine di un decennio), ma Kravčenko
ottenne un successo straordinario in Francia, con oltre mezzo milione di
esemplari venduti, e il partito Comunista francese si mobilitò. Aragon, direttore
di “Les Lettres Françaises”, settimanale culturale del partito Comunista
francese, denunciò il libro come una manipolazione dei servizi americani. Kravčenko
si querelò per diffamazione. Il processo fu lungo, il Pcf schierò i suoi
maggiori esponenti a difesa di Aragon, Kravčenko ebbe ragione, ma da risarcire con
un franco simbolico, malgrado gli enormi costi del processo – poco dopo si
suiciderà. Fra gli accusatori più determinati di Kravchenko fu Roger Garaudy,
allora filosofo marxista - qualche anno dopo lascerà Marx per la chiesa
cattolica.
Il resoconto di Berberova,
che seguì il processo come redattrice di un periodico di emigrati russi, si
legge ancora come testimonianza sui testimoni, su quelli portati da Kravčenko e
su quelli di Aragon e il Pcf.
Fra
i tanti si segnala Margarete
Buber-Neumann, per una vicenda ancora più staliniana di Kravčenko. Sposa
dapprima di Rafael Buber, figlio di Martin, poi di Heinz Neumann, entrambi
esponenti di primo piano del partito Comunista tedesco tra le due guerre, molto
attiva negli ultimi anni di Weimar, aveva subito nel 1938 la disgrazia del
marito, col quale si era esiliata a Mosca, ex pupillo di Stalin, e fu
confinata a Karaganda, nel Kazakistan, un campo di concentramento “grande
due Danimarche”, nel quale disponeva di un capanno d’argilla, infestato da
milioni di cimici, guardata da pattuglie mobili. Scambiata da Stalin nel 1940
con fuoriusciti russi in Germania, nel quadro dell’accordo con Hitler, era
stata richiusa nel lager femminile di Ravensbrück, dove s’ingegnò di
sopravvivere – benché osteggiata dalle internate politiche per il suo
comunismo: dapprima dalle stesse internate comuniste, le quali la dichiararono
traditrice per il motivo che diffondeva menzogne sulla Siberia, e di
conseguenza da tutte le politiche, per l’ascendente che le comuniste avevano
sulle altre. Il tribunale di Parigi non credette a Margarete, che era stata in
un campo in Kazakistan “grande due volte la Danimarca”, sentenziando non
potersi dire un campo una prigione “se non è cinto da mura”.
Nina Berberova, Il caso Kravchenko, Guanda, pp. 294 €
18,50
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