martedì 22 gennaio 2019

Stalin a Parigi


Un processo staliniano a Parigi, nel 1949. Che il partito Comunista francese, rappresentato dallo scrittore Aragon, affrontò – e di fatto vinse – a difesa di Stalin. Di cui la storia non si fa. Eccetto questo vecchio resoconto, opera a suo tempo di una russa emigrata, la narratrice Berberova – si ripubblica la vecchia traduzione del 1990 con una presentazione di Belpoliti.
Viktor Kravčenko, ufficiale dell’Armata Rossa, diplomatico sovietico a Washington, aveva defezionato nell’aprile del 1944, richiedendo asilo politico negli Usa. Un anno e mezzo dopo, a febbraio 1946, aveva pubblicato “Ho scelto la libertà”, una testimonianza contro il regime staliniano, del terrore e del Gulag, contro comunisti invisi all’autocrate. Non era una novità, Koestler l’aveva preceduto di un anno, con “Zero e l’infinito” (e Boris Suvarine di un decennio), ma Kravčenko ottenne un successo straordinario in Francia, con oltre mezzo milione di esemplari venduti, e il partito Comunista francese si mobilitò. Aragon, direttore di “Les Lettres Françaises”, settimanale culturale del partito Comunista francese, denunciò il libro come una manipolazione dei servizi americani. Kravčenko si querelò per diffamazione. Il processo fu lungo, il Pcf schierò i suoi maggiori esponenti a difesa di Aragon, Kravčenko ebbe ragione, ma da risarcire con un franco simbolico, malgrado gli enormi costi del processo – poco dopo si suiciderà. Fra gli accusatori più determinati di Kravchenko fu Roger Garaudy, allora filosofo marxista - qualche anno dopo lascerà Marx per la chiesa cattolica.
Il resoconto di Berberova, che seguì il processo come redattrice di un periodico di emigrati russi, si legge ancora come testimonianza sui testimoni, su quelli portati da Kravčenko e su quelli di Aragon e il Pcf.
Fra i tanti si segnala Margarete Buber-Neumann, per una vicenda ancora più staliniana di Kravčenko. Sposa dapprima di Rafael Buber, figlio di Martin, poi di Heinz Neumann, entrambi esponenti di primo piano del partito Comunista tedesco tra le due guerre, molto attiva negli ultimi anni di Weimar, aveva subito nel 1938 la disgrazia del marito, col quale si era esiliata a Mosca, ex pupillo di Stalin, e fu confinata a Karaganda, nel Kazakistan, un campo di concentramento “grande due Danimarche”, nel quale disponeva di un capanno d’argilla, infestato da milioni di cimici, guardata da pattuglie mobili. Scambiata da Stalin nel 1940 con fuoriusciti russi in Germania, nel quadro dell’accordo con Hitler, era stata richiusa nel lager femminile di Ravensbrück, dove s’ingegnò di sopravvivere – benché osteggiata dalle internate politiche per il suo comunismo: dapprima dalle stesse internate comuniste, le quali la dichiararono traditrice per il motivo che diffondeva menzogne sulla Siberia, e di conseguenza da tutte le politiche, per l’ascendente che le comuniste avevano sulle altre. Il tribunale di Parigi non credette a Margarete, che era stata in un campo in Kazakistan “grande due volte la Danimarca”, sentenziando non potersi dire un campo una prigione “se non è cinto da mura”.
Nina Berberova, Il caso Kravchenko, Guanda, pp. 294 € 18,50

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