A lungo i siciliani andavano a Milano, dopo l’unità. Non solo
gli uomini di denaro, anche gli scrittori. Verga vi elesse domicilio in piazza
Duomo. Capuana vi arrivò solerte, consigliato da Verga. De Roberto pure: solo a
Milano si sentiva vivere (“Rimpiango quella grande
Milano, dove la pianta uomo cresce con qualità ignorate nel resto d’Italia”), e
prese casa sotto quella di Verga. Fino a Vittorini, poi non più, già
prima della Lega.
Quando Ferdinando
di Castiglia e Isabella d’Aragona unirono i regni e scacciarono l’emiro di Cordoba,
inglobando anche l’Andalusia, questa era l’area forse più progredita
dell’Europa del
Quattrocento. Per
cultura, architettura, irrigazione, produzione, artigianato: un paese molto
evoluto, civile, e ben
organizzato. Poi, quasi subito, è diventata una delle aree più povere d’Europa
– fino
agli anni 1980,
al governo a Madrid del socialista Felipe Gonzales, che l’ha rifatta nuova. La
storia può andare
all’indietro. Ma il sottosviluppo non è indomabile.
Un servizio del
Tg 3 Rai sullo scrittore svedese Stieg Larsson lo mostra che monta in macchina
e fa una conversione a
U, saltando sul cordolo. È successo uguale nell’unica occasione di lavoro a
Stoccolma: due
tassisti, che dovevano invertire la direzione di marcia, sono partiti con una inversione a U.
Si può essere anarcoidi ma ben amministrati. Anzi bisognerebbe. Ma il Sud è
mite,
e si abbandona a promesse
e compari.
La calabrese Banti ignota in Calabria
Richiesta
di parlare di Roberto Longhi, il grande storico e esperto d’arte, da Antonio
Gnoli sul “Robinson”, il settimanale di “la Repubblica”, negli anni 1950-1960 a
Firenze, cosi fertile di ingegni, la francesista e romanziera Fausta Garavini
parla distesa invece della moglie di Longhi, Anna Banti. Longhi lo vede
gigione, dissipatore: “Possedeva un’intelligenza dissipativa. Come la sua
inclinazione al gioco d’azzardo”. E “era dotato di una capacità mimetica
straordinaria”, che manifestava “non solo nel modo in cui la sua prosa aderiva
al soggetto, fosse un quadro o un artista non importa, ma anche nel talento di
imitare i personaggi televisivi”. Al suo confronto la moglie, che si pensava inconsistente,
Anna Banti, minuta e riservata, “timida al limite della scontrosità”, era la
vera intelligenza della coppia. Garavini lo dice per l’amicizia che l’ha legata
alla scrittrice, romanziera e saggista: “Longhi lo vidi poco. Della Banti
divenni amica”. Ma con spirito critico: “Mi piaceva la qualità della sua prosa
ed è forse la cosa che le ha nuociuto di più. Passava per una scrittrice
difficile”. Gestì “Paragone”, la “rivista di casa”, come centro di riferimento
delle arti e la letteratura per due decenni almeno. “Emilio Cecchi”, ricorda
Garavini, “disse che il cervello della Banti era molto più potente di quello di
Longhi. E una volta sembra che Berenson rivolgendosi a Longhi disse: come si
sta a vivere con un genio?”.
Banti,
di suo vero nome Lucia Lopresti, nata a Firenze da Luigi Vincenzo, ingegnere
delle ferrovie, nato a sua volta a Torino da padre calabrese e in continua peregrinazione per
l’Italia (Lucia fece le scuole nelle Marche e a Roma, dove al liceo, il Tasso,
ebbe Longhi a professore, che poi avrebbe sposato), e da Gemma Bennini,
pratese, fu toscana di vita, tra Firenze e Ronchi di Marina di Massa, fuori
Forte dei Marmi. Ma rivendicava l’origine calabrese – la testardaggine – del
nome e della linea paterna. Il suo romanzo forse più duraturo, più delle pionieristiche
narrazioni femministe, “Artemisia”, “Le donne muoiono”, è “Noi credevamo”, che
gira attorno al “gentiluomo calabrese” Domenico Lopresti, il nonno paterno, mutanghero
negli ultimi anni perché repubblicano d’un pezzo. Calato nel personaggio di un garibaldino che non si è acconciato ai compromessi post-unitari, culminati nel “tradimento” dell’Aspromonte,
al punto da lasciare il suo impiego pubblico. Un personaggio molto “etnico”. Per la “punta”, benché in
questo caso ragionevole e anzi onorevole, e appunto per la testardaggine, la cocciutaggine.
Anna
Banti è soprattutto sconosciuta in Calabria. Che pure si fa un culto, in
innumerevoli sagre, dei suoi “figli illustri”.
L’eterno ritorno dalla Sicilia sale
Volendo compiacere
Sciascia, che l’Italia voleva divorata dalla Sicilia (la “linea della palma” che continuamente
sale), si deve riconoscere che così è per il romanzo della politica. Che in Italia è ben siciliano, fin
dagli inizi, col “Mastro don Gesualdo” di Verga, 1889, e con i romanzi di De Roberto, “I Viceré”, 1994, e “L’Imperio”. Poi con Pirandello, “I vecchi e i giovani”, Brancati, “Il gatto
con gli stivali”, Tomasi
di Lampedusa, “Il gattopardo”, Sciascia, “Il contesto” e molti racconti. Di Roma ladrona, della
politica corrotta e corruttrice, eccetera, il tema è ormai scontato, e oggi più
che mai. Ma, più al
fondo, di una polemica post- o anti-risorgimentale trascesa a – o minata da –
un compiaciuto, in
qualche modo, immobilismo, una sorta di nemesi esistenziale ancora prima che storica – la storia
vera della Sicilia è varia, e non rassegnata, molto di iniziativa.
Oggi però la Sicilia
tace. Camilleri, che ama il romanzo storico, evita la politica. Anche nella
serie di Montalbano, la
limita agli inevitabili accenni al malcostume dei potenti. Di cui gli stessi
potenti, i fascisti, ex, i
democristiani, ex, si fanno critici - questo, però, è molto siciliano.
La mafia capitale – o il trionfo della mafia
Annunciava
“Il Fatto” il 3 aprile 2018: “Nei giorni scorsi sono stati notificati ai legali
rappresentanti delle coop i decreti di dissequestro dei compendi aziendali e
delle quote sociali, tra cui 29 Giugno Onlus, 29 Giugno Servizi, Formula
Sociale, ABC e del Consorzio Eriches 29, che tornano così «nel pieno possesso
dei soci cooperatori, con l’esclusione dei soci ancora oggetto di procedimenti
giudiziari»”. Sono le onlus e cooperative create e organizzate attorno alla 29 giugno,
cooperativa di ex carcerati, da Ermanno Buzzi, incriminato di mafia, e condannato
in primo grado per i soliti intrallazzi romani ma non per mafia.
La
restituzione annunciata dal “Fatto” di fatto non è servita. Per quatto anni,
mentre “si celebrava” il processo, le cooperative hanno lavorato poco e male, e
dopo l’annuncio veicolato dal quotidiano sono andate anzi in liquidazione: “in virtù”
della prima condanna del loro coordinatore Buzzi, hanno perduto gli appalti nei
servizi cittadini. Una situazione che una lettrice di “Repubblica” così illustra
in una lettera al suo giornale: “Sono una vittima di Mafia Capitale!”, affermando
d’acchito. Ma spiega bene perché: “Lavoro
per il consorzio Sol.Co, solidarietà e cooperazione, colpito da interdittiva
antimafia nel 2015, per questo ci sono stati tolti quasi tutti gli appalti,
siamo al 2019 e siamo ancora interdetti per mafia, non abbiamo potuto
partecipare a nessuna gara, e ora siamo in liquidazione coatta”. Sa anche come
vanno queste cose, che i giornalisti omettono o non capiscono: “Hanno messo un commissario prefettizio a gestire l’unico
appalto rimasto, qualcuno si prenda la briga di andare a vedere quanto costano
questi commissari”. E ora il liquidatore.
Socia della cooperativa da militante
e non da ex detenuta, la lettrice di “Repubblica” si dice sconsolata di fronte
all’antimafia: “C’è l’incuria dello Stato che emette interdittive, che nomina
commissari con poteri immensi, che non va oltre al decreto emesso, non
guarda il danno. Allora mi scuserete se mi dichiaro una vittima di Mafia
Capitale, proprio io ex ragazza dalla gonna a fiori che urlava nei cortei ‘io
sono mia’, che voleva cambiare il mondo, che in qualche modo ha cercato di
cambiarlo, ma nulla si può”.
Le cooperative di cui Buzzi era
presidente hanno perso gli appalti a favore delle società e le onlus che
avevano a suo tempo denunziato lo stesso Buzzi e la 29 Giugno, quando hanno
perduto le gare di appalto del 2014. Hanno sostituito il gruppo della 29 giugno con risultati subito scadenti.
Per esempio nei servizi di ristorazione al Parco della Musica. E perfino
criminali, nei servizi di raccolta per l’Ama, la nettezza urbana: i rifiuti vengono
più spesso rovesciati per strada invece che asportati, dopo aver fatto
straripare i cassonetti per giorni e settimane di mancato svuotamento.
A giudicare dall’esito, si direbbe
che la Procura e la Prefettura di Roma hanno fatto il gioco dei denuncianti,
che ora si sono presi gli appalti senza avere né competenze né mezzi. In attesa
di una nuova inchiesta: se Buzzi ha pagato per avere gli appalti, com’è che
adesso gli stessi servizi sono affidati a organismi del tutto inadatti o
incapaci? Nonché il gioco dei funzionari prefettizi, una carriera che è
diventata ricchissima grazie alle mafie, vere e presunte, non c’è impiegato di prefettura
che non diventi commissario, un piccolo dittatore, molto ben retribuito, e dei
liquidatori coatti. Ma i giudici non fanno giochi per nessuno. Né si stano a chiedere:
cui prodest? Il giudice è
infallibile. Soprattutto nel trapianto della mafia – si direbbero specialisti
di innesti: ai giudici basta “importare” la mafia dove capita. Create 26
procure distrettuali antimafia – il progetto di Falcone snaturato a fini
burocratici - bisogna trovare molta mafia dappertutto.
leuzzi@antiit.eu
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