A scusa di Dante, dell’anti-islamismo di cui gli si fa colpa, specificamente
suo cioè e non del contesto e dell’epoca, Elsheikh, studioso egiziano allievo a
suo tempo del filologo Contini, ricorda e documenta l’ovvio: l’immagine nemica
di Maometto nella pubblicistica medievale – ma anche successiva, sembra
evidente – tanto ignorante quanto ostile: il Profeta era mago, epilettico, capomafia,
falso profeta, diavolo che invidia i successi altrui, monaco intrigante - uno
che briga per il patriarcato di Gerusalemme. Nei rifacimenti toscani del “Trésor”
di Brunetto Latini è invece un cardinale, della famiglia Colonna, e uno che
prova a farsi papa ma il conclave non lo elegge. Più superficialità che
ostilità.
I
riferimenti scritti, pochi, sono non di studio ma di detti e contraddetti orali. Più
cattivi in quanto Maometto sarebbe un rinnegato. “un cristiano o un mago
ingannatore ammaestrato da un cristiano (con l’aiuto di qualche ebreo)”. Mentre
“l’islam è” considerato “propaggine eretica del cristianesimo”.
Nello
specifico del canto XXVIII dell’“Inferno”, Elsheikh segnala due accostamenti
rivelatori, tra i “creditori colpevoli”: di Maometto col maestro di Dante
ripudiato Brunetto Latini, corrivo panarabista, in Spagna e a
Firenze, e col poeta provenzale Bertran de Born, che il “De vulgari
Eloquentia” aveva segnalato come “il maggiore cantore delle armi”. Maometto è
in compagnia dei due ripudi culturali maggiori di Dante. Che qui sarebbe dunque
particolarmente cattivo per la “sindrome del debitore” – da qui anche il
“contrappasso”, che solo in questo canto ricorre.
Sembrerebbe a questo punto che Elsheikh attribuisca a
Dante una conoscenza approfondita dell’islam se poi lo ripudia, al modo come fa
con Brunetto e Bertràn. Ma lo studioso egiziano sa la sua filologia e non si
azzarda.
La “carica fonica irta e segmentata” e “la brutale
aggressività delle immagini”, con un eloquio di comicità cattiva, “al limite
della volgarità”, senza eguali in tutta la “Divina Commedia”, sarebbe solo
segno di disinformazione, più che di studioso e scrittore informato dei viaggi
di Maometto. A proposito dei quali Elsheikh spiega che sono numerosi. E che semmai,
dovendo trovare dei precedenti arabi all’Inferno di Dante, propende per la
prima delle tante versioni del mi’raj, l’ascesa di Maometto, quella attribuita
al suo discepolo Anas ibn Malik, morto nel 712: un testo a lungo tramandato nel
mondo arabo islamico per via orale, rielaborato in opere latine antimusulmane.
Un racconto scarno, che però ha l’immagine centrale dell’esecrazione di Dante:
è l’Arcangelo Gabriele che, prima dell’ascensione, squarcia il torace e il
ventre di Maometto, per riempirlo, purificato, di fede e sapienza. Con un
taglio “dalla cavità della gola fino al basso ventre”, che Dante sembra
riprendere pari pari, “rotto dal mento infin dove si trulla”, all’ano. Anche il
passo che riguarda Alì, “fesso nel volto dal mento al ciuffetto”, che invece è
un fatto storico, può essere giunto a Dante dal volgarizzamento dello storico curdo
che ne diede conto, Alì ibn al-Athir, a cavaliere del 1200. Parlare di fonti è
eccessivo, ammonisce Elsheikh, perché il “mosaico” delle “conoscenze arabo-
islamiche di Dante” è pieno di buchi. Molte cose si sapevano, ma superficiali:
c’era un gossip anche all’epoca delle
cose serie, quali Maometto e l’islam.
Se Dante, però, va aggiunto, che solitamente è bene
informato, specie in fatto di fede, sull’islam si limita a mettere in versi i
pregiudizi, tanta conoscenza non ne aveva.
Mahmud Salem Elsheikh, Lettura (faziosa) dell’episodio di Muammad:
Inferno, XXVII, “Quaderni di filologia romanza”, maggio-giugno 2015, n. 23,
pp. 263-299, Patron €14
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