Pansa
confessa la sua rabbia per le vicende che, a ridosso de “Il sangue dei vinti”,
2003, la ricerca sulle vendette seguite alla Liberazione contro i fascisti, lo
hanno visto scomunicato come fascista di complemento: “Non sono più stato
ritenuto un rosso come credevo di essere, bensì un nero”. E a tutti gli effetti
messo all’indice: “Venni aggredito
e messo all'indice da parrocchie politiche che prima stravedevano per me e
volevano eleggermi in Parlamento”, come indipendente nelle liste del Pci, a
Strasburgo.
Ma molto in realtà Pansa parla delle sue
vicissitudini di giornalista. Da Grande Firma, con una solida formazione da
storico – una poderosissima tesi, oggi si direbbe da dottorato di ricerca,
sulla Resistenza nel Monferrato, il suo paese. Delle “parrocchie” dove ha
prestato il suo lavoro, prima e dopo la scomunica. Di quelle romane - non si
parla de “La Stampa” né del “Giorno” o del “Corriere della sera”. Con un
omaggio speciale a Claudio Rinaldi, che lo volle columnist – rubrichista – a “Panorama” e a “L’Espresso”, col “Bestiario”.
Pansa spiega che “I vinti” non fu una trovata
giornalistica, per un successo di scandalo. Con molte pezze d’appoggio. Per la sua
tesi, “Guerra partigiana tra Genova e il Po”, era stato invitato dal sindaco di
Tortona Mario Silla, un capo partigiano, a occuparsi anche dei vinti. Con quell’invito
in mente, a un convegno sulla Resistenza cui partecipavano personaggi di spessore, Ferruccio Parri e gli storici Gabriele De Rosa e Roberto Battaglia, ne fece proposta, da
studente infervorato. Fu rimbrottato, ma non da tutti: Parri
gli regalò un assegno di 25 mila lire, tipo borsa per i suoi studi. E nel 1969
debuttava da storico proprio con “L’esercito di Salò”, un saggio che fu apprezzato
anche a sinistra – dopo varie edizioni ripubblicato come “Il gladio e l’alloro”..
Del resto anche “Guerra partigiana” diventerà un saggio storico per il grande
pubblico, oltre 600 pagine, nella collana accademica di storia Laterza, vent’anni
fa – cinque prima dello scandalo.
Un racconto di amarezze. Anche semplice nell’argomentazione:
Pansa non propone una revisione della storia, solo dice che i “vinti” ci sono
stati. Molti anche in buona fede, traditi dall’entusiasmo e dalla gioventù. Nonché da un certo senso
dell’onore – al centro peraltro dell’ultimo Camilleri, come dire di Pci
patentato, visto in tv, l’altro ieri. Un racconto amaro.
Uno
sfogo. Anche polemico. Ma misurato, se non autocensurato – involontariamente?
Nella parte forse più interessante per i lettori, della sua esperienza di
giornalista. Vice-direttore senza
poteri a “la Repubblica”, se non per un brevissimo periodo nell’estate del 1980
– quando non trovava nessuno da mandare a Bologna per la strage, nessuno dei
cronisti e inviati si faceva vivo né rispondeva ai recapiti d’obbligo… Non
ricorda come il gruppo lo abbia messo in disparte, a “la Repubblica” dopo
“L’Espresso” di Rinaldi, e a “L’Espresso” dopo “la Repubblica”, confinato,
quando ancora era nel pieno delle forze, all’elzeviro settimanale del “Bestiario”.
Malgrado
la rabbia che esterna, Pansa non dice che fu “messo all’indice” dal gruppo la
Repubblica-l’Espresso, che riteneva la sua casa. E che lui in questo gruppo,
controllato giuridicamente dalla famiglia De Benedetti, e editorialmente dal
Pci e i suoi derivati, è sempre stato considerato un corpo estraneo. Molto
prima de “I vinti”, e anzi da subito. Chiamato da Scalfari e apprezzato per la
sua enorme e brillante dedizione al lavoro – sul “pezzo” dall’alba. Col titolo,
dovendolo strappare al “Corriere della sera”, di vice-direttore. Ma senza mai
voce in capitolo, il “gruppo dirigente” - come Scalfari lo chiamava non
gradendolo, quasi ne fosse prigioniero – o struttura redazionale in accomandita
al Pci, allora coordinata da Veltroni, osteggiandolo come corpo estraneo. Per
sospetto non si sapeva bene di che cosa, ma comunque non “in linea”.
Completa
il memoir una scelta delle lettere ricevute a seguito de “I vinti”, di
ringraziamento o esecrazione. A completare quello che Pansa vuole “un ritratto
del mondo di oggi”, dei “nevrotici anni Duemila”. Da storico mancato
probabilmente sapendo, ma non lo dice, che è da cosa che nasce cosa – la
faziosità che oggi i bennati esecrano è stata a lungo virtù riverita, con pochi
spazi esenti nei settanta e passa anni della Repubblica.
Giampaolo
Pansa, Quel fascista di Pansa,
Rizzoli, pp. 235, ril. € 20
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