Kappler – Willy Brandt, il cancelliere socialista tedesco tenace
oppositore di Hitler, in esilio fin dal 1933, che s’immortalò a Varsavia il 7
dicembre 1970 chiedendo perdono in ginocchio nel ghetto, si adoperò
insistentemente per la grazia a Kappler, il boia delle Fosse Ardeatine. Tonia
Mastrobuoni lo spiega sulla “Repubblica”, sulla base di un libro in uscita del
giornalista e storico Felix Bohr, “Die Kriegsverbrecher Lobby”, la lobby dei
criminali di guerra. Un assunto forte, ma provato.
Due settimane prima di Varsavia, Brandt ha voluto
un colloquio con Emilio Colombo, presidente del consiglio, appositamente per
chiedere, “con insistenza”, la grazia per Kappler. Che per lui è un
“condannato” e non un “criminale”. Non fu la sua prima mossa a favore dei
“condannati di guerra” Non molti peraltro, cinque in tutto, e anche questo
incuriosisce: “i quattro di Breda”, condannati in Olanda e detenuti a Breda
fino al 1989, e Kappler. E non sarà l’ultima. “La sua insistenza nella questione
dei criminali di guerra”, Mastrobuoni cita Bohr, “superò quella di tutti i suoi
predecessori e i suoi successori”. Non dirà Kappler “criminale” neanche nelle
memorie, quando da tempo era fuori dalla politica e non aveva bisogno di
popolarità.
A Kappler Brandt si era interessato da subito, all’inizio
della carriera politica, da sindaco di Berlino. Nel 1963 scrisse all’ambasciatore
tedesco a Roma per sensibilizzarlo a favore di Kappler. Da cancelliere fu il
suo unico motivo di interesse per l’Italia. In un’intervista a “Stern” nel
1973, ancora cancelliere, si vanterà di avere “sfinito di parole” gli
interlocutori italiani “per liberare un uomo dal carcere” – suscitando questa
volta reazioni polemiche, sia in Italia che in Germania. “Il libro di Bohr”,
scrive Mastrobuoni, “dimostra inequivocabilmente che Brandt usò persino il Nobel
per la pace che gli fu assegnato nel 1971 per aumentare le pressioni sul caso”.
Mandò a Roma Leo Bauer, un giornalista ebreo ex comunista, reduce dai gulag in Siberia,
per sondare il Pci sulla grazia – ricevendone un rifiuto.
Bohr non si spiega l’insistenza di Brandt. Cioè,
se la spiega, ma male. Brandt voleva fare il capopopolo. Ma allora contro ogni
possibilità, un socialista non avrebbe mai avuto il voto dei reduci nazisti.
Oppure perché, dice, “in Germania quasi
nessuno conosce quell’episodio”, le Fosse Ardeatine. Che però non è vero.
L’eccidio
fu specialmente crudele, “omicidio continuato”, per il quale Kappler il 18
luglio 1948 era stato condannato all’ergastolo dal Tribunale militare di Roma.
Con una pena accessoria di quindici anni per “requisizione arbitraria” di 59
kg. di oro alla comunità ebraica romana. Era ufficialmente una rappresaglia
contro l’attentato di via Rasella, nel quale erano periti 33 soldati tedeschi. Ma
fu operata con modalità crudeli e non regolamentari: i rastrellati furono uccisi uno per uno, ed erano stati scelti con criteri non chiari. Dei morti identificati, 322 su 335, è accertato
che 39 erano militari della Resistenza, tra essi il capo, Giuseppe Cordero
Lanza di Montezemolo, 52 del partito d’Azione, 68 di Bandiera Rossa, 75 ebrei.
Gli altri furono presi tra i detenuti comuni. I gappisti di via Rasella, gli
autori dell’attentato all’origine dell’eccidio, tutti del Pci, la fecero franca,
e con loro ogni altro detenuto del Partito. Cinque ostaggi in più dei 330
richiesti, portati alle cave per errore, furono uccisi per evitare testimoni.
C’è anche da dire che i tedeschi non propagandavano
le rappresaglie, che pure sono atti esemplari. Forse sapevano di essere nel
torto. Sicuramente agivano per astio. Sparare
a 335 persone, a una a una, la cosa prese ventidue ore, ne richiede molto. Alla
mattanza volle partecipare un pilota SS, il capitano Priebke, che aveva
deportato i Ciano in Germania, ai comandi dell’aereo che doveva portarli in
esilio in Spagna – i tedeschi, che si vogliono ligi alle leggi, sono soliti
tradire.
Brandt, bisogna dire, non era solo. La Germania
ha fatto molto per identificare i criminali di guerra tedeschi – per quelli
attivi in Italia ha fatto più dei tribunali italiani. Ma i tribunali e gli
studiosi. Gli eccidi tedeschi in Italia, inclusa
Cefalonia, sono stati studiati dai tedeschi: 6.951 fascicoli per strage a
carico di SS e militari della Wehrmacht che poi sono stati archiviati in Italia. Solo
storici tedeschi si occupano dei soldati italiani deportati in Germania. I politici invece, di ogni partito, hanno sempre insistito per
derubricare i reati, i politici tedeschi. È del resto la Germania il paese che
ha avuto la più ampia e determinata Resistenza, ma non ha una festa della Liberazione,
e non ha il culto delle vittime tedesche di Hitler – nemmeno sotto forma di studi o storie.
La liberazione di Kappler dominò i rapporti
Italia-Germania negli anni 1970, specie gli anni di Andreotti e del compromesso
storico, e culminò con la sua finta evasione dall’ospedale del Celio, dove
peraltro il colonnello delle SS era uomo libero, a Ferragosto del 1977. Un’operazione da servizi
segreti, sceneggiata con sufficienza, quasi per dichiararla una “sceneggiata”: Kappler,
che aveva 72 anni ed era malato terminale, la notte fra il 14 e il 15 agosto si
sarebbe calato dalle “mura”, che il Celio non ha, non è un forte, è un ospedale
moderno, con l’aiuto della moglie Anneliese. La quale di anni ne aveva, è vero,
solo 52, ed era tenace e combattiva, ma aveva sposato Kappler solo nel 1972, a
47 anni, proprio per darsi questo scopo nella vita – una fanatica.
Il criminale di guerra per eccellenza in Italia,
condannato già nel 1947, ha beneficiato in Germania da subito di un sostegno
praticamente totale delle forze politiche e dell’opinione pubblica.
Prigioniero di guerra degli inglesi, come tale
era stato consegnato all’Italia, e fu giudicato da un tribunale militare.
Godendo delle disposizioni di favore della Convenzione internazionale sui
prigionieri di guerra. In pratica, l’obbligo a essere trattato come un
qualsiasi detenuto italiano.
Prima di Brandt, avevano chiesto la liberazione
di Kappler l’associazione tedesca dei reduci, e la lega dei rimpatriati, gli ex
prigionieri di guerra. Dopo Brandt, furono i cardinali e i vescovi cattolici tedeschi
a sollevare il caso Kappler. Scrivendo nel gennaio 1972 varie missive al
presidente della Repubblica, che era Saragat. A Saragat successe Leone, che
Andreotti aveva fatto eleggere con i voti della destra neofascista, e le
pressioni si intensificarono. Il 12 marzo 1976, presidente del consiglio Moro,
Arnaldo Forlani ministro della Difesa dispose il passaggio di Kappler dal
carcere militare di Gaeta all’ospedale del Celio, per motivi di salute.
Poi le pressioni a favore di Kappler si
mescolarono a quelle politiche, compartite dalla Germania con gli altri grandi
occidentali, alla prospettiva dell’ingresso del Pci nel governo. Erano
pressioni, scriverà Andreotti, che andavano prese con attenzione, perché la
Germania, governata allora da un altro cancelliere socialista, Helmut Schmidt,
aveva aiutato e aiutava l’Italia a governare la lira e il debito – col
famoso prestito su garanzia dell’oro della Banca d’Italia.
Il provvedimento di Forlani fu firmato alla
presenza dell’ambasciatore tedesco a Roma. Il provvedimento era in realtà di
sospensione della pena. Il Procuratore Militare emise di conseguenza un
provvedimento formale in tal senso, che fece notificare a Kappler al Celio.
Dopodiché il colonnello delle SS tornava libero, anche se eleggeva a suo domicilio l’ospedale militare. A novembre il cardinale vicario di Roma, Ugo Poletti,
esortò in una pastorale i romani a non accrescere l’odio per la liberazione di
Kappler. Nella primavera successiva, 1977, Anneliese Kappler vendeva le memoria
che avrebbe scritto dopo la liberazione. Il 27 giugno il senatore Tullio Vinay,
pastore valdese eletto come indipendente nelle liste Pci, consegnò ad Andreotti
una petizione a favore di Kappler di personalità protestanti tedesche. L’unico
problema era come fare arrivare Kappler in Germania, da dove, in quanto cittadino
tedesco, in base alla Costituzione, non avrebbe comunque potuto essere
estradato. E questo si fece a Ferragosto.
Andreotti fronteggiò alla Andreotti le
rimostranze. Della fuga fece responsabile un onorevole pugliese,Vito Lattanzio,
che aveva provvidenzialmente nominato alla Difesa. E lo spostò ai Trasporti,
con Marina Mercantile, un doppio incarico che a Lattanzio piaceva di più.
Multipolarismo
– Non è di oggi, l’America da tempo richiede un
impegno maggiore, finanziario e logistico, delle potenze locali, seppure in un
disegno concertato “occidentale”, con gli stessi Stati Uniti. La Dottrina Guam
o Dottrina Nixon, del 1969, puntava a spostare il peso della guerra in Vietnam
sullo stesso Vietnam e altri paesi asiatici. Henry Kissinger, collaboratore e
poi segretario di Stato di Nixon, è sempre stato multipolare - la storia si lega
alla nemesi, ha insegnato da giovane, da storico della Restaurazione, e questo
bisogna ora evitare, in epoca nucleare non c’è ritorno. Ma con
un segno distinto di “condivisione”: delle spese e delle responsabilità. Anche
verso la “protezione” americana, militare, strategica ed economica: pagando di
più, pro quota, l’impegno militare americano, e bilanciando l’ex-import con gli
Stati Uniti, motore economico dell’Occidente.
Il
mondo multipolare è anch’esso in 1984,
diviso in tre, Oceania, Eurasia, Asia Est – Oceania è la Nato.
New York – È stata battezzata come Nouvelle Angoulême, e fu francese, acadica,
dei francesi del Canada, prima di diventare New Amsterdam. Il nome francese glielo diede
nell’aprile del 1524 l’esploratore fiorentino Giovanni da Verrazzano – lo diede
alla baia, non all’abitato che non c’era. Verrazzano navigava per conto della
corona di Francia, su una nave chiamata La Dauphine.
Ora italica - Fino
al 1800, fino all’avvento dell’“ora francese”, era in vigore in molte parti
d’Italia l’ora italica, detta anche ab
occasu, che divideva il giorno in ventiquattro ore partendo dal tramonto.
La notte era quindi interamente del giorno successivo.
Gli
orologi a ora italica segnavano le ore fino al tramonto. L’alba non c’era,
l’ora prima si spostava sulla variazione del tramonto nell’arco dell’anno. Lo
stesso momento della giornata era individuato a ore diverse: mezzogiorno
coincideva con l’ora 19ma in inverno, e con la 16ma in estate.
Tracce
di’ora italica sopravvivono in alcuni detti: portare il cappello sulle ventitré
significava calato sugli occhi per difendersi dai raggi del sole basso verso il
tramonto.
Nessun commento:
Posta un commento