A Roma, capitale del pettegolezzo
– il gossip ha di nuovo solo il nome –
approda l’ultimo degli Uzeda di Francalanza, Consalvo, onorevole votatissimo in
Sicilia al primo suffragio “quasi universale” nel 1882. E un giovane
salernitano di belle speranze diventa giornalista, Federico Ranaldi. Entrambi a
sostegno del primo governo di compromesso, quello votato il 19 maggio 1883 da
Sinistra e Destra - il “trasformismo”. Un romanzo a chiavi, ma trasparenti:
Milesio è Depretis, Giglia è Minghetti, quello che portò i voti di Destra al
governo della Sinistra. Contro la corruzione, del denaro e degli ideali.
Un romanzo di vita
parlamentare, sottocategoria del romanzo politico. Avviato nel 1891, ma contemporaneo
de “I vecchi e i giovani” di Pirandello. Un genere poco frequentato dopo la
Grande Guerra – se ne trova un solo esempio, “Il comunista” di Morselli, anni
1960. Forse perché sopravanzato dal fascismo. E poi, nella Repubblica, dalla
deprecazione, che non l’ha lasciata un momento, dal rimo giorno dopo il
referendum istituzionale. Ma di largo smercio dopo l’unità d’Italia, per la novità
rappresentata dal voto e dal Parlamento, che subito scade, e di più si dice e
si stampa che sia scaduta, nella venalità e il tradimento. Se ne sono fatte
anche storie, lo stesso nome del giovane che si farà giornalista, Ranaldi, era
già comparso come Rambaldi ne “L’ultimo Borghese” di Enrico Onufrio, 1885, e come
Renaldi in “Decadenza” di Luigi Gualdo (che compare ne “L’Imperio” in un salotto
col proprio nome). Anche questo di De Roberto lo è, sebbene non finito, o
finito in fretta, e pubblicato postumo – da Titta Rosa nel 1929, su un
manoscritto ritrovato dalla nipote dello scrittore, Nennella. È di largo smercio,
anch’esso.
La retorica della disfatta
La fascetta promozionale
dell’edizione Garzanti si vuole “la riscoperta di un capolavoro di sorprendente
attualità”. Non è vero, “L’imperio” si riedita costantemente. Probabilmente
perché è il primo che sanziona la politica come compromesso – il diniego della
politica. I personaggi anche sono emblematici, se non ricorrenti: hanno
biografie e pulsioni, ma “Cronaca”, il giornale di Consalvo Uzeda e il giovane
Ranaldi, nasce per coprire l’inciucio. E
si discute, anche allora, di riformare il Senato. L’Italia è sempre “l’ultima
delle grandi nazioni”. Il re è già uno che, “il giorno del pericolo… preparerà i
bauli, detterà la sua brava abdicazione, e ci lascerà nel ballo, a difendere un
posto vuoto”. C’è pure il teatroValle, dove anzi tutto culmina, per una
“concione” antisocialista cui “il giovane siciliano” Consalvo Uzeda di
Francalanza è promosso dal partito conservatore - su iniziativa delle contesse,
altro topos romano - applaudito dalle
“persone amiche” di cui gli organizzatori hanno riempito il teatro, per costruirgli
un cursus honorum da ministro.
Proprio come ora. E viceversa: “Da quella conferenza contro il socialismo egli
sentiva d’essere uscito socialista”. Niente di nuovo, cioè, tutto vecchio – non
manca l’attentato terrorista a Consalvo. Infuria già anche la depressione. Un
romanzo, si direbbe, premonitore. Ma non lo è – se non di una retorica della disfatta
morale, molto giornalistica, del giornalismo scandalistico, “tanto peggio tanto
meglio”.
“L’Imperio” è il primo
romanzo anti-inciucio come concepimento, perché l’esecuzione fu lenta,
travagliata, e non conclusa. O conclusa in fretta. De Roberto lo comincia nel
1891, appena finito “L’illusione”, il primo romanzo del ciclo degli Uzeda. “Un
nuovo romanzo”, annuncia a un amico, “da fare il paio con «L’illusione» e che
dovrebbe intitolarsi «Realtà»”. Già con difficoltà: “Ma è un libro così triste
, che dopo aver scritto la metà del primo capitolo, la paura mi ha arrestato”. La paura ha sempre accompagnato
l’ipersensibile De Roberto, anche se con qualche esagerazione – sarà anche il
titolo di un racconto nel 1920 sull’“orrore” dela Grande Guerra. Poi lascia
“Realtà” per “I Viceré”. Lo riprenderà come un seguito, il terzo della serie
Uzeda, col plurilinguismo, e la ferocia polemica, de “I viceré”.
Lo stesso anno de “I viceré”,
dice a Ugo Ojetti che ha in uscita “un romanzo di vita parlamentare”. L’anno
dopo, allo stesso amico del primo annuncio comunica che sta scrivendo
“L’Imperio”, non più “Realtà”, da due anni. Poi spiega che sta lavorando a
“Spasimo”, un giallo, ma che “dopo
questo «Spasimo» verrà l’ «Imperio», che è già cominciato anch’esso”.
Poi niente fino al 1902, quando ne accenna alla vecchia fiamma degli anni di
Milano, Renata Ribera. Sei anni dopo riprende il progetto, e da Roma ne scrive
alla madre, donna Marianna degli Asmundo – donna imperiosa che lo teneva al
guinzaglio. Il libro sarà postumo e, si ritiene, incompiuto. Queste riedizioni
si rifanno a un testo parzialmente diverso da quello del 1929 – ripreso nel
1934 e nel 1957. Nel 1981 Carlo A. Madrignani ne ha approntato per gli Oscar –
e poi per i Meridiani – una versione basata su un dattiloscritto dell’opera con
fitte correzioni autografe, e la parola “Fine”.
Roma ladrona
In effetti il romanzo non è
inconcluso, è irrisolto. Un progetto forse troppo ambizioso – sbagliato, ma non
si può dire: corrivo al conformismo, all’opinione dominante, l’immarcescibile “Roma
ladrona”, anche se vi si ruba meno che altrove. Una caratterizzazione dell’Italia
ancora provinciale, ancorata alle origini tribali, con frequenti innesti dialettali.
Una moltiplicazione dei personaggi della politica. Qualcuno anche caratterizzato,
senza sbrodolamenti. Soprattutto le donne: la scrittrice-giornalista piemontese,
la contessa troppo bella e troppo intelligente, la marchesina che s’infatua di Consalvo,
la ragazza adolescente che salverà Federico (Ranaldi). Molti cammei di
onorevoli ignoranti, o stupidi - c’è perfino, non eccentrico, quello che vota
contro quello per cui voleva votare. Ma non vi succede molto, anzi nulla, a
parte i papocchi. Che però si sanno. La concione antisocialista si svolge per
venti pagine. L’attentato a Francalanza, opera di un balordo, per quaranta. Il
finale è a coda di pesce. Consalvo Uzeda di Francalanza, che abbiamo lasciato
avviato agli Interni dopo qualche centinaio di pagine, è dato per dimesso in mezza
riga. Il suo ex alfiere, il giornalista Federico, è tornato a Salerno dai
vecchi genitori, e poi su un Sacro Monte a cavallo sulla Costiera Amalfitana e
quella Sorrentina, un paradiso tra i due Golfi, a meditare sul male delal vita
e il suicidio.
Nonché non trascurato editorialmente,
il romanzo è stato rilanciato da Sciascia su “la Repubblica” il 14 agosto del
1977. L’uscita ferragostana, giorno morto per le edicole, è stata scortese per
Sciascia, e lo ha allontanato da “la Repubblica” - a Scalfari, che pure è un
indignato permanente, anche lui, non piaceva questo sconosciuto De Roberto? Ma
il romanzo resta lo stesso oggetto di molte trattazioni critiche ultimamente,
di Madrignani, per i Meridiani, Di Grado, Grana, Zago. E ora di Gabriele
Pedullà, il curatore dell’edizione Garzanti, alla quale premette un saggio
appassionato a appassionante lungo quasi quanto il romanzo – Pedullà ha già
rieditato De Roberto, i racconti di guerra raccolti sotto il titolo “La paura e
altri racconti di guerra”. “L’Imperio” si ripopone per l’evidente “attualità”
del tema, dell’inconcludenza della politica, del suo autosvuotamento. E per che
altro?
High tory
Non c’è plot, e quanto succede, che si sa o subodora dalla storia, vi è
trascurabile. Francalanza dimesso prende poche righe, dopo che per duecento pagine
ha agognato il ministero, e allusive più che esplicative, di rivolte popolari e
repressioni sanguinose, “la guerra, la rivoluzione, l’amore, il dolore”, e di “una
sommossa” contro il governo. Un saggio politico. Anche un romanzo di caratteri,
ma quetso sì incompiuto, o perplesso. Quello di Consalvo Uzeda è modellato come
autoritratto, autofustigativo: una sorta di high
tory inglese, conservatore progressista - “«il mio carattere», pensava, «è
di essere senza carattere»” (De Roberto nelle lettere si fustiga analogamente).
La sua storia finisce nell’amplesso con la contessina Renata sulle scale del
condominio, nel ridicolo, come di un personaggio odiosamato – o come se lo
scrittore non ne avesse mai vissuto uno. Un romanzo che doveva fare seguito a
“I Viceré”. Il terzo del “ciclo degli Uzeda”, dopo “L’illusione” e “I Viceré.
Ma non una storia high tory, l’ironia
è minima – agli amici De Roberto annunciava “un libro terribile”, che doveva
“fare l’effetto di una bomba”.
La ripresa critica è un
tentativo di rimpolpare il romanzo italiano Fine Secolo (fine Ottocento), dopo
la gelata seguita a “I promessi sposi”. Di vivacizzare la scena, limitata a
Verga e D ‘Annunzio. Difficile per il resto appassionarsi.
Pedullà dà il senso politico
del romanzo – “La politica spiegata da De Roberto” è il titolo del suo saggio.
Contestualizzandolo, però, più che attualizzarlo. Sul fondamento di
Tocqueville: “I rapporti tra l’aspetto sociale e politico di un popolo e il
genio dei suoi scrittori sono sempre assai numerosi”. Conclusione che De
Roberto condivide, autonomamente – Pedullà pone in esergo De Roberto e Tocqueville con due citazioni simili. E
ancorandolo alla cultura positivista del tempo.
La retorica dei governi
De Roberto usualmente è accostato
a Tomasi di Lampedua. Ma no, è l’Ottocento positivista: “Nel ciclo degli Uzeda
è il primato della Natura sulla Storia”. È il sottinteso della “attualità” di
questo “romanzo parlamentare”: gli anni passano le persone restano, con i vizi
di sempre – l’attualizzazione come determinismo. Ne “L’Imperio”, in
particolare, è la “critica delle retorica politica liberale”, della storia
liberale, anche della storia dell’unità – la monarchia? il Piemonte? Uno
scrittore come Zola, come Trollope. Sulla scia più italiana di Gaetano Mosca,
il teorico delle élites, “Sulla
teorica dei governi”, appena uscito, 1984, accolto con grande risonanza. Non
l’aristocrazia che cede il passo alla borghesia: l’aristocrazia si mescola alla
borghesia, nella palude degli affari. Una critica da conservatore e non da
radicale.
La lezione finale è
apocalittica: “« La Monarchia ha fatto
l’Italia ». « Proprio lei, sola sola? E come l’ha fatta ? Sponte
o spinte ? Con le vittorie, o a furia di disfatte ? E che cosa è
questa sua Italia? Dov’è la gloria, il lauro e il ferro che il vostro Leopardi
andava cercando sessant’anni addietro? Ne avete notizia voi? Siamo l’ultima
delle grandi nazioni, una ranocchia gonfiata sul punto di crepare, come quella
della favola »”.
“Romanzo di
costume”, lo dice anche Pedullà. Come lo voleva l’autore. Ma allora non
tolstojano, per dire, nemmeno dostoevskijano. Aveva più ragione Croce, la cui
critica usa dismettere come affrettata e sbagliata, che non Sciascia, nel
ritratto di De Roberto scritto per “La Critica”, poi confluito nella raccolta
di saggi “La letteratura della nuova Italia”, che De Roberto diceva scrittore
di poco “affetto e fantasia”, piuttosto “ingegno prosaico, curioso di
psicologia e di sociologia, ma incapace di poetici abbandoni”. Zolianamente
impegnato, a proposito de “I viceré”, a “dimostrare una tesi”, che si è quello
che si era, “per larghi e profondi che siano i rivolgimenti sociali e
politici”, aristocratici superbi sempre, o ladri, o corrotti, eccetera. “Questa
idea” Croce dice giustamente che “non è un principio di unificazione artistica,
ossia un motivo poetico”. Ma, di più, “toglie l’ingenuità di descrittore
storico al romanziere”. Non è un principio minimamente scientifico. Era
l’impronta positivista, vede bene Pedullà.
L’attualizzazione
ne è un segno. È un secolo e mezzo ormai che i Parlamenti si dicono in Italia
di ladri e corrotti. Che non è possible. E non è vero. Ma questo spiega la
“storia perduta”: il vezzo di misconosere la storia è il problema, non la
“natura” corrotta degli italiani – il vezzo del pettegolezzo.
Federico De Roberto, L’imperio, Garzanti, pp. 512 € 20
Bur, pp. 323 € 9
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