Oggi l’“eccezionalismo” è in causa nel dibattito
sull’imperialismo americano. Che appunto non si vuole imperiale, ma movimento
di libertà. Per il credo eccezionalista, ma è più un sentiment, l’imperialismo è una cosa europea, che implicava l’occupazione
di territori, lo sfruttamento delle loro risorse, la dominazione delle
popolazioni locali. Mentre l’America
avrebbe agito in maniera diversa, a partire dalle Filippine e da Cuba, dalla
guerra contro la Spagna: si sarebbe unicamente impegnata per l’indipendenza e
la democrazia di popoli soggetti, per la libertà.
L’“eccezionalismo” in campo internazionale viene
discusso nel quadro della revisione in atto della politica estera e militare
degli Stati Uniti: se fare il poliziotto del mondo oppure no - discorso di Trump nella base americana fuori Baghdad il 26 dicembre. Avviata da Obama e
rafforzata da Trump: il retrenchment,
la restrizione delle spese e quindi dell’impegno diretto, militare oltre che
diplomatico. Il riesame è reso
più difficile dalla concezione dell’intervento americano come di libertà. Se –
poiché – l’imperialismo è come lo definiva Mitterrand: “L’idea d’impero è per
se stessa come un male che vi divora”. Ma è in chiave interna che lo studio di
Lipset, e l’eccezionalismo nella tradizione, si colloca: perché l’America non è
in alcun modo socialista.
Il quesito si può rovesciare, arguisce lo stesso
Lipset: “Poiché qualcuno può obiettare a un tentativo di spiegare un negativo,
una mancanza, il quesito si può naturalmente rovesciare e chiedersi perché l’America
è stata la società politica più classicamente liberale nel mondo dalla sua fondazione
a oggi”. E lo fa, proponendo gli Usa come il paese dell’eguaglianza. Non in
assoluto, ma come “più uguali” – non nel senso di Orwell, di alcuni “più uguali”
degli altri: più uguali che nel resto dell’Occidente.
In apertura, nell’introduzione, definisce “l’ideologia
della nazione”, del modo di essere americano, “in cinque parole: libertà,
egualitarismo, individualismo, populismo e laissezfaire”. L’America è nata
repubblica, aggiungeva, l’Europa monarchica. “Le valutazioni comparative non
sono mai assolute”, precisa, “si fanno sempre in termini di più e meno. L’affermazione
che gli Stati Uniti sono una società egualitaria non implica ovviamente che
tutti gli americani sono uguali in qualsiasi modo questo si possa intendere.
Questa proposizione significa (a prescindere da quale aspetto sia sotto
considerazione: le relazioni sociali, lo status, la mobilità, etc.) che gli Stati
Uniti sono più egualitari dell’Europa”. E non per ereditarietà, si direbbe, o
scienza infusa: “Essere americano”, aggiunge subito Lipset, “è un impegno
ideologico. Non è una questione di nascita. Chi rigetta i valori americani è
in-americano”.
L’America è nata liberale: “L’ideologia rivoluzionaria
che divenne il Credo Americano è il liberalismo nella sua accezione sette-ottocentesca,
diversa da torysmo conservatore, comunitarismo statalista, mercantilismo, e noblesse oblige dominanti nelle culture
monarchiche, stato-chiesa”. Non ha avuto aristocrazie e non ha avuto
conservatori ad essa legati: “L’America è stata dominata da puri valori
borghesi, di classe media, individualistici”.
Lipset apre la trattazione con un richiamo a
Chesterston: “L’America è la sola nazione al mondo fondata su un credo. Quel
credo è stabilito con lucidità dogmatica e perfino teologica nella Dichiarazione
di Indipendenza”. Che Burke, va aggiunto
aveva preceduto, nel discorso al Parlamento del 22 marzo 1775 in cui presentò
un piano in cinque punti per “concedere e conciliare” con le colonie in rivolta
– un mese dopo, con la battaglia di Lexington e Concord, la prospettiva decadeva. Il ribellismo (“disobedient
spirit”) americano Burke legava alla crescita economica (“oggi le esportazioni dell’Inghilterra
verso “le colonie” sono uguali a tutte le esportazioni settant’anni fa”), e al
fatto che i coloni, benché inglesi a tutti gli effetti, non avevano diritti
politici, di rappresentanza e di legislazione. Ma soprattutto, concludeva,
nasce dal sentiment libertario: “Nel
carattere degli americani l’amore per la libertà è la caratteristica dominante
che segna e distingue il tutto; e siccome una passione ardente è sempre gelosa,
le colonie diventano sospettose, turbolente, e intrattabili quando vedono il
più piccolo tentativo di strappargli con la forza, o sfilargli con l’imbroglio, quello che credono il solo bene per cui
meriti vivere. Lo spirito orgoglioso di libertà è più forte nelle colonie
inglesi, probabilmente, che in qualsiasi altro popolo della terra, e questo per
una grande varietà di potenti cause”.
Nell’Ottocento
prevaleva la “germ theory”, anzi la continuità era scontata,
per molti la rivoluzione americana fu un prolungamento dei dibattiti alla
Camera dei Comuni. Lo stesso Burke ne era convinto – tra le “potenti cause” c’era
il fatto che i coloni erano inglesi – ma sapeva che non era tutto. È del resto vero
che i futuri Stati Uniti d’America non furono mai colonie, erano pezzi delle
madrepatrie, un’Europa trapiantata, inglese, olandese, francese, tedesca, russa
perfino, seppure governata da Londra, alla lontana. Ora le differenze sono
nette. Le tradizioni europee si riconoscono in America in quanto incidono su
persistenze tipicamente americane. Quel poco che ancora incidono, e
alla pari delle tradizioni africane o asiatiche.
Un libro di vent’anni fa, che non si è tradotto
benché necessario alla storia americana, e nostra.
Seymour Martin Lipset, American Exceptionalism, W.W.Norton,
pp. 352 € 16.34
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