martedì 5 febbraio 2019

La libertà è americana, eccezionale

Il sociologo politico americano fa dell’“eccezionalismo” nel sottotitolo, “A double edged sword”, un’arma a doppio taglio. Ne fa comunque un’arma. Anche se la basa su una mancanza: “La nozione di «eccezionalismo americano» si è applicata ampiamente nel contesto degli sforzi per spiegare la debolezza del radicalismo operaio negli Stati Uniti. Il quesito maggiore sussunto nel concetto divenne perché gli Stati Uniti sono il solo paese industrializzato che non ha un movimento socialista significativo o un partito Laburista”. A partire da Engels, che ne fece il problema principale dei suoi ultimi dieci anni di vita. Werner Sombart si pose il problema in un’opera apposita, “Perché non c’è il socialismo negli  Stati Uniti?”, 1906. Nello stesso anno lo stesso quesito poneva H.G.Wells, allora giovane attivista fabiano (socialista) in “The Future in America”. Sarà un problema anche per Lenin e Trockij, che  Marx non funzionasse in America. E non c’è rimedio, conclude Lipset introducendo la sua ricerca. “Benché gli Stati Uniti restino il il più ricco grande paese industrializzato, devolvono meno del loro reddito al welfare e impegnano lo Stato meno nell’economia di quanto avviene per altri paesi industrializzati. Non soltanto non hanno un’efficace, classista, movimento politico radicale, ma i loro sindacati, che a lungo sono stati più deboli di quelli di quasi tutti i paesi industrializzati, sono andati rapidamente indebolendosi a partire dalla metà degli anni 1950”.
Oggi l’“eccezionalismo” è in causa nel dibattito sull’imperialismo americano. Che appunto non si vuole imperiale, ma movimento di libertà. Per il credo eccezionalista, ma è più un sentiment, l’imperialismo è una cosa europea, che implicava l’occupazione di territori, lo sfruttamento delle loro risorse, la dominazione delle popolazioni locali.  Mentre l’America avrebbe agito in maniera diversa, a partire dalle Filippine e da Cuba, dalla guerra contro la Spagna: si sarebbe unicamente impegnata per l’indipendenza e la democrazia di popoli soggetti, per la libertà.
L’“eccezionalismo” in campo internazionale viene discusso nel quadro della revisione in atto della politica estera e militare degli Stati Uniti: se fare il poliziotto del mondo oppure no - discorso di Trump nella base americana fuori Baghdad il 26 dicembre. Avviata da Obama e rafforzata da Trump: il retrenchment, la restrizione delle spese e quindi dell’impegno diretto, militare oltre che diplomatico. Il riesame è reso più difficile dalla concezione dell’intervento americano come di libertà. Se – poiché – l’imperialismo è come lo definiva Mitterrand: “L’idea d’impero è per se stessa come un male che vi divora”. Ma è in chiave interna che lo studio di Lipset, e l’eccezionalismo nella tradizione, si colloca: perché l’America non è in alcun modo socialista.
Il quesito si può rovesciare, arguisce lo stesso Lipset: “Poiché qualcuno può obiettare a un tentativo di spiegare un negativo, una mancanza, il quesito si può naturalmente rovesciare e chiedersi perché l’America è stata la società politica più classicamente liberale nel mondo dalla sua fondazione a oggi”. E lo fa, proponendo gli Usa come il paese dell’eguaglianza. Non in assoluto, ma come “più uguali” – non nel senso di Orwell, di alcuni “più uguali” degli altri: più uguali che nel resto dell’Occidente.
In apertura, nell’introduzione, definisce “l’ideologia della nazione”, del modo di essere americano, “in cinque parole: libertà, egualitarismo, individualismo, populismo e laissezfaire”. L’America è nata repubblica, aggiungeva, l’Europa monarchica. “Le valutazioni comparative non sono mai assolute”, precisa, “si fanno sempre in termini di più e meno. L’affermazione che gli Stati Uniti sono una società egualitaria non implica ovviamente che tutti gli americani sono uguali in qualsiasi modo questo si possa intendere. Questa proposizione significa (a prescindere da quale aspetto sia sotto considerazione: le relazioni sociali, lo status, la mobilità, etc.) che gli Stati Uniti sono più egualitari dell’Europa”. E non per ereditarietà, si direbbe, o scienza infusa: “Essere americano”, aggiunge subito Lipset, “è un impegno ideologico. Non è una questione di nascita. Chi rigetta i valori americani è in-americano”.
L’America è nata liberale: “L’ideologia rivoluzionaria che divenne il Credo Americano è il liberalismo nella sua accezione sette-ottocentesca, diversa da torysmo conservatore, comunitarismo statalista, mercantilismo, e noblesse oblige dominanti nelle culture monarchiche, stato-chiesa”. Non ha avuto aristocrazie e non ha avuto conservatori ad essa legati: “L’America è stata dominata da puri valori borghesi, di classe media, individualistici”.
Lipset apre la trattazione con un richiamo a Chesterston: “L’America è la sola nazione al mondo fondata su un credo. Quel credo è stabilito con lucidità dogmatica e perfino teologica nella Dichiarazione di Indipendenza”. Che Burke, va aggiunto aveva preceduto, nel discorso al Parlamento del 22 marzo 1775 in cui presentò un piano in cinque punti per “concedere e conciliare” con le colonie in rivolta – un mese dopo, con la battaglia di Lexington e Concord, la prospettiva decadeva. Il ribellismo (“disobedient spirit”) americano Burke legava alla crescita economica (“oggi le esportazioni dell’Inghilterra verso “le colonie” sono uguali a tutte le esportazioni settant’anni fa”), e al fatto che i coloni, benché inglesi a tutti gli effetti, non avevano diritti politici, di rappresentanza e di legislazione. Ma soprattutto, concludeva, nasce dal sentiment libertario: “Nel carattere degli americani l’amore per la libertà è la caratteristica dominante che segna e distingue il tutto; e siccome una passione ardente è sempre gelosa, le colonie diventano sospettose, turbolente, e intrattabili quando vedono il più piccolo tentativo di strappargli con la forza, o sfilargli con l’imbroglio,  quello che credono il solo bene per cui meriti vivere. Lo spirito orgoglioso di libertà è più forte nelle colonie inglesi, probabilmente, che in qualsiasi altro popolo della terra, e questo per una grande varietà di potenti cause”.
Nell’Ottocento prevaleva la “germ theory”, anzi la continuità era scontata, per molti la rivoluzione americana fu un prolungamento dei dibattiti alla Camera dei Comuni. Lo stesso Burke ne era convinto – tra le “potenti cause” c’era il fatto che i coloni erano inglesi – ma sapeva che non era tutto. È del resto vero che i futuri Stati Uniti d’America non furono mai colonie, erano pezzi delle madrepatrie, un’Europa trapiantata, inglese, olandese, francese, tedesca, russa perfino, seppure governata da Londra, alla lontana. Ora le differenze sono nette. Le tradizioni europee si riconoscono in America in quanto incidono su persistenze tipicamente americane. Quel poco che ancora incidono, e alla pari delle tradizioni africane o asiatiche.
Un libro di vent’anni fa, che non si è tradotto benché necessario alla storia americana, e nostra.
Seymour Martin Lipset, American Exceptionalism, W.W.Norton, pp. 352 € 16.34

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