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sabato 16 febbraio 2019

Letture - 374

letterautore


Asessuato – È, era, presocratico il genere indistinto - il concetto di indistinto dei distinti. Su cui ora le anagrafi inciampano, quando registrano le nascite, con “genitore uno” e “genitore due”, per non dover dire il sesso (fino a che uno e due non saranno anch’essi targati come ingiusti, antiugualitari?). E di Empedocle specialmente tra i presocratici, oltre che di Eraclito: “Io una volta fui ragazzo e ragazza, cespuglio e uccello e muto pesce nelle onde. La natura cambia tutte le cose avvolgendo le anime in strane tuniche di carne”.
Il genere indistinto però semplifica la grammatica, eliminando la “mozione”, la proprietà che hanno certe lingue e certi composti di contrapporre forme femminili a forme maschili e viceversa. Sempre nella direzione di appiattire o annullare i distinti nell’indistinto. Per ora verbale, domani non si sa – c’è al fondo, nella tensione alla semplificazione, l’attesa di una teurgia delle parole – della aprola che crea la cosa e il fatto, e non viceversa.
Ecclesiaste – Meglio, molto meglio, nella traduzione arieggiata di san Girolamo he in quella, che sarà pure filologica ma è fumosa, di Ceronetti – “Fumo dei fumi, tutto non è che fumo….”. Vanità, vento, vuoto, polvere, nulla danno più il senso dell’intraducibile “hebel” ebraico, dove la b al centro sta tra la nostra b e la nostra v, al modo del beta greco.
Emoji – Fanno vent’anni.Vent’anni dopo il probabile debutto degli emoticon, di cui sono progenie, che avevano inventato la rappresentazione di significati, e anche di emozioni, mediante i segni grafici - ortografici e alfabetici. Questi probabilmente di origine americana, quelli invenzione sicuramente giapponese.
Le immagini scherzose, prevalentemente di faccine ma anche gestuali, si sono rapidamente moltiplicate. A fine gennaio se ne conteggiavano esattamente 3.053. Di cui 230 appena approvati, gli emoji 2019 – comprensivi di un aglio e di un yo-yo. Con la possibilità di variare le tonalità di colore della pelle, per ogni membro di emoji di gruppo, le “permutazioni”, ce ne sono 4.225. Forse troppi: la diversificazione potrebbe portare all’insignificanza, che sarebbe l’inizio della fine delle faccine. Hanno prosperato in quanto “immediatamente significanti”, e polisemici, a significato multiplo, o a più sfaccettature. Oltre che per favorire una “scrittura” immediata: le “faccine” si vogliono immediatamente disponibili, non da ricercare come nel vocabolario.
Nei vent’anni, oltre che moltiplicate, le faccine sono molto cambiate. Prima erano “bianche”,  dal 2015 hanno differenti tonalità di colore, dal quasi nero al quasi bianco. Il consorzio Unicode ha adottato come colore base un giallo Simpson,  consentendo agli utenti la colorazione con cinque toni epidermici, dal “bianco pallido” al “marrone scurissimo”. 
Il bianco non va più
C’è stata anche una marcata occidentalizzazione delle faccine. Ma non ci sono ancora, nelle tremila faccine, un bianco coi capelli castani e la barba. Statisticamente, peraltro, le due prime tonalità di bianco  sono poco o nulla usate – invece del bianco usa una forma di abbronzatura.
I primi emoji sono stati creati dalla società telefonica giapponese NTTDocomo. Così chiamati dalla crasi di tre ideogrammi:  e (immagine), mo (scrittura) e ji (carattere). L’emoticon derivava dall’inglese emotion + icon). Nascevano come pittogrammi, indicazioni di un oggetto (il treno, la sigaretta), o ideogrammi, cioè simboli (Il cerchio rosso sbarrato per dire proibizione), ma si sono evoluti in forma ibrida, ambivalente. Un teschio non significa “ho un teschio in mano” ma “sono stanco, o confuso”.
L’emoji in realtà è più ideogramma. Ma con la sua moltiplicazione va irrigidendosi: è più specifico e quindi meno flessibile. Sia nella comunicazione che nella ricezione: mentre prima comunicava qualcosa che era in comune fra i corrispondenti, eppure non ben specificato, ora è quasi notarile.

Leopardi – “Leopardi produce un effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù e te ne accende in petto un desiderio inesausto. È scettico, e ti fa credente” – Francesco De Sanctis.

Montaigne – Era guascone, mezzo basco, e ne usava la lingua. Lo spiega Fausta Garavini a Antonio Gnoli sul “Robinson”, il settimanale di “la Repubblica” – Garavini fu traduttrice “critica” dei “Saggi”, lavorati giornalmente con filologi del calibro di Mazzino Montanari e Giorgio Colli, negli anni 1960: “Dovetti misurarmi con una lingua marezzata di guasconismi. Il guascone fa parte dell’area occitanica”.
Garavini fu scelta come traduttrice in quanto esperta, su suggerimento e con l’assistenza di Gianfranco Contini, col quale si laureerà sul medesimo tema, di letteratura occitanica moderna, “la lingua d’oc del Sud della Francia che ha dato vita alla poesia provenzale e dei trovatori” - la tesi sarà “”L’Empèri dou Souléu”, 1967, Ricciardi. Il guascone, spiega, “è la lingua della corte di Navarra che in quel momento conosceva una smagliante fioritura. Montaigne  ne rivendica esplicitamente l’uso, dichiarando che vuole rappresentarsi al naturale, dunque scrivere come parla. Del resto, nei contati quotidiani con servitori e contadini, che non sapevano il francese, doveva usare una lingua ibrida”.
Il saggista ponderato era un multilinguista, si esprimeva in lingue diverse con gli umori. Trovandosi a suo agio ovunque, negli ambienti e con le popolazioni più diverse. Non perché l’ha detto Socrate”, annota nei “Saggi”, “ma perché in verità è la mia opinione, e forse non senza qualche eccesso, ritengo tutti gli uomini miei compatrioti, e abbraccio un polacco come un francese: posponendo questo legame nazionale a quello universale e comune. Non sono un patito della dolcezza del paese natale. Le conoscenze del tutto nuove e mie mi sembrano ben valere quelle altre comuni e fortuite conoscenze del vicinato”.
Scrisse anche buona parte del “Viaggio in Italia” in italiano. Fu in Italia per curare la calcolosi, dolorosa, ma non senza gli umori che saranno dei “Saggi” – lamenta per esempio la povertà della cucina italiana a fronte di quella tedesca, fastosa...


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