L’America
dismette l’impegno diretto in Medio Oriente ufficialmente perché vuole che le
forze in campo, i governi della penisola arabica, l’Egitto, la Turchia, Israele, l’Arabia Saudita, “facciano la loro parte”. Sottinteso: delle spese militari. Ma le spese
militari si fanno per uno scopo, secondo piani strategici. E questi mancano:
gli Stati Uniti se ne vanno e basta. In una regione in cui invece i piani
strategici ci sono, ma ostili: dell’Iran, della Russia, della Siria di Assad, e
del fondamentalismo islamico in Afghanistan e in Iraq. All’ombra del
terrorismo.
C’è
sempre Hezbollah in attività, il raggruppamento libanese filoiraniano e anti-israeliano.
Ci sono ancora frange mobilitate di palestinesi. L’Is non è morto. Che non era Al
Qaeda, un movimento terroristico contro l’Occidente in Occidente: l’Is ha
creato governi territoriali, e disponeva di finanziamenti e armamenti, di un retroterra
– non solo nel Qatar come ora si vorrebbe (che è invece il regime della penisola
arabica più occidentalizzato, con più ramificazioni in Europa e negli stessi
Usa).
Succede
in Medio Oriente, si dice ancora, come succederà altrove, nel quadro di una
visione del mondo che Washington ha ora multipolare. Con più potenze, in un
concerto di potenze. Ma la multipolarità è vecchia, la condivisione delle
responsabilità con potenze locali e delle spese per la sicurezza. Kissinger,
studioso e teorico del concerto metternichiano delle potenze - dell’equilibrio delle forze e del negoziato permanente
- l’ha teorizzata in un documento del 1974, dopo la “guerra del petrolio” che
aveva posto l’Europa in stato d’assedio: nella solidarietà transatlantica,
ognuno provveda per sé. Ma già la “dottrina Guam”, o “dottrina Nixon”, 1969, ne
stabiliva il principio: la guerra del Vietnam è dei vietnamiti – opera peraltro
anch’essa di Kissinger, assistente speciale d Nixon.
Il retrenchment di Obama e Trump è un semplice
abbandono del Medio Oriente. Cui si forniscono armamenti anche complessi, e
costosi, ma come un semplice mercato di esportazione.
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