Musu, emerito di Economia
politica a Ca’ Foscari, è problematico. Prodi, nella prefazione, dà il “miracolo
cinese” un po’ troppo per scontato. Partendo dal presupposto che esso è
soprattutto “politico” – che invece sembra la sua debolezza: oltre che per lo
status di potenza industriale avanzata acquisito in pochi decenni, con “l’entrata
massiccia, in certi casi dominante, nelle medie tecnologie”, la Cina “presenta
oggi se stessa non come un’anomalia ma come punto di riferimento della politica
mondiale”. Ha attriti commerciali con gli Stati Uniti, ma lì potrebbe
intervenire l’Europa: l’associazione alla Cina dei 16 paesi dell’Europa
orientale, il “16 + 1”, non è amichevole verso la Ue, che però “ha invece un
ruolo insostituibile nel tentare di ammorbidire le tensioni” fra i due grandi
paesi.
Musu
è perplesso, rivedendo quello degli Stati Uniti come altri risentimenti, dei paesi
asiatici grandi e piccoli, Giappone e India, Malesia e Filippine, contro la marcia
trionfale che la gestione Xi Jinping a Pechino ritiene di poter esercitare sul
continente e fino in Africa col programma “Via della Seta”. Ritiene di potersi
comprare tutto, e questo non piace, in Asia e perfino, da qualche tempo, in
Africa: si parla apertamente di imperialismo.
Ma
di più pesa l’incognita politica interna. Non potendosi pensare a un regime dittatoriale
e censorio a tempo indefinito. Soprattutto dopo la grande crescita economica e
la creazione di un vastissimo ceto medio urbano.
Senza
omettere i problemi economici insorgenti. Il “miracolo cinese” non ha mai
sperimentato, nei suoi trent’anni, un rallentamento, a cifre più consone ai
ritmi di sviluppo mondiali, e ha difficoltà di aggiustarsi a essi. Si discute molto
ora a Pechino di abbandonare il tasso di cambio fisso del renminbi sul dollaro,
e di abbandonare il vincolo di un disavanzo pubblico di bilancio entro il 3 per
cento del pil. Tutto perché il tasso di crescita è sceso dall’8 o il 9 per ceno
al 6. Il nervosismo non è indice della fragilità politica del regime?
Musu
non pone apertamente il problema. Ma sa che incombe. Fa forte l’elogio di Xi, “da
più parti equiparato a Mao Zedong per influenza, carisma e potere” – che non è
vero. Dice la Cina “la prima economia del mondo” – che è vero ma in parte. E dà
l’Occidente per finito (“sta venendo meno la coesione, e quindi la centralità,
dell’Occidente”) – che può essere vero. Ma sa che la Cina “è una potenza
complessa”, piena di “contraddizioni”, “non solo sotto l’aspetto economico, ma anche sotto il
profilo delle disuguaglianze sociali, dell’autoritarismo politico e dei
persistenti squilibri territoriali e ambientali”. Fino a scongiurare quello che
non nomina, anche se evidentemente lo pensa, anche lui: “Il peso e il ruolo economico ormai
assunto dalla Cina sulla scena internazionale non rendono auspicabile un suo
fallimento, perché questo comporterebbe conseguenze disastrose per l’intera
economia mondiale”.
Ignazio
Musu, Eredi di Mao. Economia, società, politica nella Cina di Xi Jinping, Donzelli, pp.
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