Marco Di Lauro, “l’uomo più ricercato d’Italia dopo Matteo Messina Denaro”, latitante dal 2004, viene arrestato a casa sua in un condominio, “senza stanze segrete né impianti di sorveglianza e nemmeno guardie all’esterno”, dove vive con la compagna e due gatti.
Le
origini
Il 16 luglio 1891 Federico De Roberto
trentenne emigrato a Milano scrive al giovane amico letterato palermitano Ferdinando
Di Giorgi: “Quando sarò tornato a casa”, a Catania, “attaccherò «I Viceré»”, il
romanzo catanese. E successivamente, il 23 dicembre, da Catania: un romanzo
come “I Viceré” “si deve scrivere nell’ambiente in cui si svolge la sua azione”.
Le origini contano, e l’ambiente. Non
come vincolo, come stimolo. È il segreto dei narratori siciliani e napoletani,
di terre da cui non si fugge, sia pure tra le deprecazioni.
Nei versi di W.H.Auden, inglese d’oltremare,
cosmopolita vagabondo, dapprima a Berlino poi a New York:
“Speranza di un poeta: poter essere,
come certi formaggi delle valli,
locale ma apprezzato anche altrove”
(nella raccolta “Shorts”, p. 65 dell’edizione
italiana).
La
Sicilia di Marcello Cimino
Marcello Cimino, morto trent’anni fa e
subito dimenticato, fu giornalista letterato di Palermo di avide
amicizie, amico lui stesso di molto riposo, con uno sguardo singolarmente perspicace
- rapido, penetrante. Collega anziano del “Cesare Alfieri” di Firenze, e quindi
di ottima cultura politica, ma più isolano vigile.
Curioso,
diceva, c’è libertà di pensiero a Palermo. Il forestiero vaga su una spessa
coltre, formata dai pensieri della città. Tanto spessa che non pone domande, e
evita le risposte. C’è libertinismo, di pensarlo se non di farlo, di pensare
ogni possibile improsatura. Con animo candido, anzi critico, pervaso dei
destini della nazione e dell’umanità, è per questo vasta la moralità che la
Sicilia dispensa al resto del mondo, magistrale, ultimativa. La verità è che la
verità non piace. La Sicilia di suo la aborre. Per quel gusto che il nobile
Palmieri di Micciché dice “silenziosità castigliana” - forse intendeva ironicamente:
a Madrid parlano a raffica, e a Palermo.
“È
così che basta un questore di mezza tacca a tenere l’isola in pugno”, diceva
sempre semplice e amabile. Era stato collega e amico di De Mauro, ma sapeva che
non c’è limite al peggio: “Hobsbawm ha contato dodici insurrezioni a Palermo
fra il 1512 e il 1866, un record in Europa. Poi più nulla. Ad Agira c’è il
cimitero canadese: duemila tombe, ognuna con una sua frase di saluto, pulite
anche dalle erbacce. Sono le tombe dei caduti nello sbarco del 1943. Sono morti
più canadesi per la liberazione della Sicilia che siciliani. Domani è un altro
giorno è la nostra divisa, ce l’hanno rubata”. Agira è nome remoto, della
conquista araba.
“Accidenti, se non è ricca Palermo”, diceva
del consumo ostensivo perdurante, in epoca piccolo borghese, lo scimmiottamento
dell’aristocrazia favoleggiata, per cui bisogna fare a Palermo la cosa giusta,
al posto giusto, all’ora giusta. E citava Yurick, “The political Economy of
Junk”, pure lui leggeva la “New Left Review”: “La città non è povera, è
depressa”. La malinconia rilevando profonda al Delle Palme, salotto allora
politico: “Ogni inchino una fitta, deve bruciare così una pugnalata. I
siciliani »sono come le vespe», diceva Erissia, «se qualcuno, provocandoli, ne
eccita l’ira diventano intrattabili». Orazio descrive Plauto «brioso come il
suo modello siciliano Epicarpo». Di cui però non si sa nulla, ci manca sempre
qualcosa. La Sicilia, direbbe il Gattopardo, è femmina, si lascia ingravidare”.
“Il
Gattopardo” è, è stato a lungo, tema imprescindibile: “Dice Croce che Vittorio
Emanuele II piaceva ai napoletani «diversamente ma analogamente» come Ferdinando
IV di Borbone. Su questo «diversamente ma analogamente» Tomasi ha centrato «Il Gattopardo».
Noi ci facciamo piacere troppe cose, la
logica ci ha lasciato”. E la Germania: “L’imperatore Federico morì troppo
presto”.
La
Germania è rimasta in Sicilia in casa Piccolo, divagava: “I Piccolo, i cugini
di Tomasi di Lampedusa, hanno, come l’altro Federico, il Gran Re di Prussia,
fede negli spiriti e amore per i cani. La cugina li seppellisce, con la lapide,
in giardino, in un cimiterino ormai vasto. Sono però bestie comuni, il Gran Re
aveva invece levrieri italiani, che onorava di titoli, marchese, conte, duca”.
“Ci
sono le sorelle oltre che le mogli e le mamme: bisognerebbe conoscerne le donne
per capire i siciliani, come di qualsiasi altro popolo maschile. Se ci fu prima
il matriarcato e poi il patriarcato, si può ritenere quello naturale e questo
una fase storica. Ma non si sa perché le donne si ritrassero. Si ritrassero
infatti, non ci sono tracce di guerra: non furono eliminate, non avrebbero potuto,
pena l’estinzione della specie, e non se la presero più di tanto, poiché sono
sempre madri affettuose, sorelle, amiche, amanti. Si può ipotizzare che non sia
un fatto di “o….o”, ma della prevalenza ora dell’uno ora dell’altro gene. O sono le donne in Sicilia come si vedono, inaccessibili? Si vede
dagli occhi troppo neri, o troppo chiari. Secondo Tomasi, che lo scrisse alla
moglie Licy, «non c’è città dove si fotta meno» di Palermo”.
Può
essere il troppo dolce che abbassa “gli zuccheri” – alza la glicemia, riduce il
benessere e l’energia? Quando Lucio Piccolo andò a San Pellegrino, Montale,
sconvolto nel suo piccolo ordine, ne fece una macchietta, indelebile. “Il mondo
resta complesso, eccetto che al Nord”, sapeva essere filosofico. “Ma quello di
Piccolo e del suo amico Montale non è un caso: il Sud capisce e ama il Nord, il
Nord non capisce e disprezza il Sud, pensando, che è il più grave, di saperne
tutto e ancora di più. Anche Sciascia, uomo laico nel senso del meridionale
settentrionalizzato, o della civiltà che si trova al Nord, con le metropoli,
gli affari e la pubblicità. O Vittorini, che per questo si fece sfuggire
l’evidenza, del «Gattopardo» che è un romanzo sociale, perfino neorealista – se
ha un punto debole è quello”.
Di
una comune conoscenza di cui non fu più possibile avere a un certo punto ntizie
della moglie, che era stata generosa anfitriona: “Si
sono lasciati, lei l’ha lasciato. E questo lo segna. È un bravo uomo, ma non
tanto da farsene una ragione. Lei è migliore indubbiamente, più intelligente,
ha buoni studi, è anche un bella ragazza, e ha trovato di meglio. Lui è come
tutti i siciliani, pensa che lei sia una poco di buono, e se ne vergogna. Non
ci sono grandi storie d’amore in Sicilia. Ossia, ci sono ovviamente, ma non
vengono raccontate: tanti letterati nell’isola, anche sommi, e nessuna passione
amorosa, niente Leile, Leandri. Non fanno parte dell’immaginario. Uno come L. è
più che altro angosciato per aver sposato una bagascia. Si riterrà tutta la
vita un cornuto”.
O non viceversa?
Non si spiega col forte seppur mascherato matriarcato l’assenza del sentimento?
Assenza di cui Marcello era certo: “Palermo è l’unico teatro d’opera che per un
secolo e mezzo non ha avuto Mozart in cartellone. La prima volta fu nel 1947.
La città non si prende con lievità di spirito, Mozart vi è afono. Il barone
Pietro Pisani fece allestire «Così fan tutte» al Regio il 4 ottobre 1811, per
l’onomastico del principe ereditario Francesco: non piacque. Tre anni dopo
allestì in casa «Il flauto magico», per il quale scrisse versi cantabili in
italiano, e invitò a dispetto una sola persona, un mercante tedesco, di nome Marsano,
che gli aveva abbozzato in latino il testo tedesco, per consentirgli di
poetarlo”.
leuzzi@antiit.eu
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