Si può aver vissuto vicino Reggio, leggendo uno e due giornali al giorno, la settimana in cui si prepara e si inaugura al Museo Archeologico della città la mostra “Dodonaios. L’oracolo di Zeus e la Magna Grecia”, sull’oracolo di Dodona e i legami che intratteneva con la Magna Grecia, e non saperne niente. Mostra importante, anche visivamente, che aiuta a rischiarare un lato finora ignoto, i culti misterici – di cui potrebbe essere la continuazione il culto mariano a Polsi, per molteplici punti di contatto (v. su questo sito il nostro “Polsi, il luogo di culto con più continuità”, 30 settembre 2007:
Non che la”Gazzetta del Sud” e il “Giornale di
Calabria” abbiano molto altro da scrivere. Se non che il consigliere comunale X
si dissocia dal sindaco Y, il vescovo esorta i fedeli, il prefetto commissaria comuni, ospedali,
scuole e quant’altro gli viene a tiro. Con i mattinali dei Carabinieri, anche
se vuoti. Una mascheratura, o il vuoto?
Il mare di Omero
Si fa
molto la questione del mare in Omero. Partendo dal mare “colore del vino” che
in qualche traduzione (e in Sciascia) fa impressione – per il “colore” schiumoso.
Ma il mare è in Omeroa anche bianchiccio: “anedu
polies alòs, sorse dal mare binchiccio”. E naturalmente blu: “l’onda blu”,
l’onda bku scuro”.
Omero si divertiva, licenza poetica si sarebbe detto
un tempo. Ma è pure vero che il mare cambia colore: a volte è bianco, o verde,
anche a occhio nudo, specie lo Jonio
Ma perché Omero si legherebbe al Sud, al
Mediterraneo? Non mancano quelli che lo fanno nordico, baltico, compreso qualche
italiano - piace riscrivere la storia. Perché Omero è mediterraneo, anche nella “Iliade”: è solare. Anche nella
tempesta. Mediterraneo è solare? Evidentemente.
Il mare
è terragno al Sud
Il mare è sfondo e tema ricorrente in
letteratura al Sud. A opera di scrittori poco marinari, piuttosto anzi terragni.
Specialmente i napoletani – con l’eccezione di La Capria, di “Ferito a morte”
- e i calabresi – senza eccezioni.
Alvaro ne parla molto ma non vi si è mai immerso. Repaci pure, benché avesse
casa a Palmi tra cielo a mare, e avesse posto il centro dei suoi interessi in
un’altra città di mare, Viareggio.
I siciliani invece, a parte l’azzardo di Verga
coi “Malavoglia”, per fare il realismo di terra e di mare, se ne tengono
lontani, non lo vedono nemmeno: Capuana, De Roberto, Martoglio, Pirandello, Brancati,
Tomasi di Lampedusa (i suoi cugini Piccolo, che pure avevano vista sul
mare, si occupavano del giardino posteriore, il cimitero dei cani), Sciascia, Bufalino.
Camilleri fa eccezione, ma giusto per il personaggio Montalbano e per “Vigata”,
che gli conviene assimilare alla nativa e marittima Porto Empedocle – ma non che
il mare ci sia molto nei Montalbano, a parte le nuotate igieniche, e negli
ultimi film il ristorante.
La
nostalgia non regge al ritorno
Il ritorno, nostos,
è tipico dell’emigrato. Ma non è mai felice – forse è impossibile che lo sia:
la nostalgia non si concilia con le variazioni intervenute nell’emigrato e nel
luogo di origine, non necessariamente convergenti, né in armonia col passato. E
del resto se uno emigra, per quanto obbligato, un motivo ci dev’essere, un contenzioso.
Il film del ritorno, “L’uomo tranquillo” di
John Ford, malgrado il lieto fine allora (1952) necessario, è un film di
incomprensioni. L’americano emigrato che ritorna nostalgico al paese in Irlanda
non capisce la donna di cui s’innamora, e da questa, benché innamorata, non è
capito, anzi è insolentito. Estraneo anche al tema principale del film,
il contenzioso necessariamente aspro tra fratello e sorella – la sua innamorata
– per questioni di soldi (terreni, dote).
Il romanzo del ritorno, l’“Odissea”, dice poco
del ritorno vero e proprio, giusto la parte conclusiva. Il riconoscimento (agnizione),
che pure era in antico un canone narrativo di grande popolarità e uso, liquida
in breve. Dopo una lungo apprendistato al rientro, di controesami, testimonianze,
prove.
La
Calabria tropicale
In un racconto di Saverio Strati, sui suoi anni
giovanili attorno al 1940, c’erano piantagioni di banane nella locride – un uomo
rispettato che prende lo stesso trenino degli studenti ha piantagioni di
banane. Poi abbandonate? Evidentemente sì, nella locride non ci sono più
nemmeno palme da decorazione – poche sono sopravvissute al punteruolo rosso. Non
concorrevano probabilmente con quelle della Somalia, che l’Italia s’impegnò a
importare a titolo di riparazioni coloniali. E poi col monopolio Chiquita. Era
stato Mussolini a volere le banane in Somalia, a due riprese. Per ovviare
alla crisi del cotone (i rezzi si dimezzarono col crac del 1929), fece convertire
le colture nel Giuba in bananeti. E poiché le banan somale non eano
competitivie, crero un ammasso redditizio (per i produttori), la Regia azienda
monopolio banane – il monopolio satà tenuto in vita nel dopoguerra come Azienda
monopolio banane, fino allo “Scandalo delle banane” del 1963 –i concessionari,
ben 124 in tutta Italia, la cosa era redditizia, sapevano dalla stessa azienda
quali canoni dovevano proporre all’asta (il processo si concluse con pene
veniali, a opera di Andreotti, da ministro della Difesa dei governi Moro I e
II).
Allo stesso modo, negli stessi luoghi, si è abbandonato
il gelsomino: l’essenza era stata sintetizzata chimicamente, la manodopera costava, le raccoglitrici
sono già materia di antropologia – “I fimmini di ghiuri” è una ricerca di
Caterina Morano al corso di antropologia che Patrizia Giancotti ha avvito all’Accademia
di Belle Arti di Reggio. Per lungi anni la tentazione fu forte di abbandonare anche
il bergamotto. E si è abbandonata a Reggio Nord, che era un giardino di agrumi
profumato, e ora è un agglomerato di palafitte su impiantiti polverosi, l’ovale
calabrese o “belladonna”, un’arancia succosa tardiva, aprile-maggio, e quindi pregiata. Nonché l‘anona,
“chirimoya” in Perù, dove è apprezzatissima, per sapore e qualità
organolettiche.
Rossana Panzera tenta ora con i familiari di resuscitare
l’una e l’altra coltura. Per ora un impegno più che un progetto – i mercati sono lontani, da Roma in su. Con Coldiretti forse ce la fanno, che risolve la
promozione, se non la distribuzione.
La Calabria è una terra feconda di varietà, dai
vitigni alle erbe, mediche e commestibili, che nel mercato attuale, che le
privilegia, potrebbero fare colture ricchissime.
Perché
modificare i napoletani?
“Non sarà ingiuriando i Napoletani che li si
modificherà… Niente stato d’assedio, niente mezzi da governi assoluti. Tutti
sanno governare con lo stato d’assedio. Io governerò con la libertà, e dimostrerò
quello che possono fare di quelle belle contrade dieci anni di libertà. Tra
vent’anni saranno le province più ricche dell’Italia. No, niente stato d’assedio,
ve lo raccomando”. Si esprimeva così, in francese, in punto di morte, delirando?,
il conte di Cavour all’indomani dell’unificazione. Così perlomeno ne fa fede molti
anni dopo Ernesto Artom, “Il conte di Cavour e la Questione Napoletana”, nel
tardo 1901 – la questione meridionale era ancora la questione napoletana.
Massimo L. Salvadori, che cita il conte nella versione Artom in esergo a “Il
mito del buongoverno”, 1952, così la commenta: “I meridionalisti liberali il testamento spirituale del Cavour lo fecero proprio, e ripeterono gli stessi
ammonimenti che sono in esso al mondo delal conservazione italiana. Ma mise
fine alla loro protesta il lungo stato d’assedio che la borghesia italiana
impose al paese”. E con questo intende il fascismo. Ma l’assedio è poi finito?
Un Sud indipendente, per quanto mal governato, non potrebbe stare così male.
leuzzi@antiit.eu
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