“In vita mia ne ho viste di
cose. Una volta stavo andando a casa d mia madre per fermarmi qualche giorno, ma
appena misi il piede sull’ultimo scalino, do un’occhiata e le vedo che stava sul divano a sbaciucchiarsi con un tizio. Era estate, la porta era aperta e il
televisore a colori acceso. Mia madre
ha sessantacinque ani e si sente sola”. Racconti di caccia e pesca, tra ami e
fucili. Di case roulette. E di alcol e solitudine. Nello stesso racconto della
mamma, “lontano, un altro uomo cresce i miei figli, e va a letto con la
moglie, la mia moglie”.
Carver ha volto questa
antologia di saggi, poesie e racconti quando infine ebbe successo, nel 1984,
con “Cattedrale”. L’alcol è l’unica concessione alla bio standard, ma in questo
caso non senza motivo. Non l’unica, c’è anche il solito “Mestiere di scrivere”,
inevitabile in America dove da sempre scrivere è materia d’insegnamento. Ma con
la pretesa di non fare autobiografismo.
“Non sono uno scrittore
autobiografico” proclama subito –
l’ultimo? E “minimale”, genere di cui la critica lo ha eletto eponimo? Neanche.
Forse perché “non possiedo il tipo di memoria capace di far rivivere intere
conversazioni, complete di tutti gesti,
tutte le sfumature del discorso reale; e non posso neanche ricordare l’arredamento
di alcuna delle stanze nelle quali ho passato del tempo….”.
Un autore minimalista senza dubbio,
che si diminuisce, e per questo amabile. Nonché autobiografico, uno dei primi
se non il primo, che qui comincia col racconto del padre, e continua con quello
di sé. Ma non per questo meno amabile: non è bugiardo, è diminutivo. Disteso,
gli short cuts per cui è famoso li ha
riposti, il fraseggio è semplice, grammaticale.
Il come fare dice di avere appreso
da Flannery O’Connor. Di cominmciare: da una frase, un’immagine, un
personaggio, una cosa. Senza uno schema prestabilito. Che non sembra una buona
ricetta, mettersi a scrivere senza sapere cosa si vuole dire. Ma anche questo
confluisce alla gradevolezza del personaggio, oltre che dello scrittore. L’altra
influenza rivendicata è del professore di scrittura, quando Carver è infine riuscito
a frequentarne una, secondaria, John Gardner,
di cui scrive un lungo ricordo, scrittore sfortunato ma ottimo insegnante
e editore. Oltre che – come è consueto per gli scrittori americani degli anni
1950-1960, di Gordon Lish, mitico caporedattore per la letteratura a “Esquire”,
mensile per soli uomini.
Il ritratto di Gardner
completa il memoir. Segue una scelta
di poesie prosastiche, minimalissime. Con alcuni racconti inediti in volume,
tra cui quello della madre con l’amichetto. Tutti peraltro in vario modo del
genere selfie. “Voi non sapete che
cos’è l’amore” è una lunga serata in poesia con Charles Bukowsky. Della comune
dipedendenza – e prosa? – dall’alcol.
“Non sapevo niente, ma almeno sapevo di non sapere niente” è l’altro
tema del composito memoir. Lettore
compulsivo e disordinato ma ignorante. Lui e la moglie, due ragazzi ignoranti
di famiglie ignoranti, che avrebbero voluto fare il liceo ma si disperdono in mestierucoli,
anche perché hanno già fatto due figli. Mestierucoli veri, non quelli con cui usa
infiocchettare le bio americane delle persone illustri. A vent’anni senze scuola,
senza mestiere, senza casa, e con due figli. Alla moglie è dedicato “Le pietre
azzurre”, il racconto in versi di Flaubert che scrive una scena d’amore tra Emma
e Rodolphe masturbandosi – che spiega la cosa camminando sulla spiaggia al suo
“amico chiacchierone Ed Goncourt, mentre si godono “un sigaro e una bella
veduta di Jersey”: “L’amore non c’entra per niente”. Lo scrittore Americano è
(solitamente) iperletterato.
Raymond Carver, Voi non sapete cose’è l’amore, minimum
fax, remainders, pp.345 € 7,50
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