Eccezionalismo
americano – È più forte nella proiezione esterna, anche in
questo lungo dopoguerra che gli Stati Uniti hanno controllato, se non dominato –
il figurarsi la storia e la politica americane come diverse e migliori.
Si discute ora, con la presidenza Obama e di più
con quella Trump, se l’impero americano, o pax
americana, sia alla fine. Di fronte all’emergere della Cina come potenza
globale, presente finanziariamente, commercialmente e industrialmente, se non
militarmente, in tre quarti del globo, potenza dominante in Africa, e influente
in Asia e in Europa, alla pari con le multinazionali americane, o appena sotto
di esse ma in ascesa. Un tramonto di cui la presidenza Trump rappresenterebbe
un colpo di coda.
Non è la prima volta che se ne discute. Almeno in
altre due epoche, in questo dopoguerra che ha visto negli Stati Uniti la
potenza dominante, se ne è discussa, e
anzi celebrata, la fine. A cavaliere del 1960, quando l’Unione Sovietica
sembrò sopravanzare gli Stati Uniti nella corsa allo spazio. E un decennio
dopo, con la crisi nei campus e le rivolte dei neri, la sconfitta in Vietnam, e
la crisi del dollaro. Ma se ne discute fuori, negli Stati Uniti no, se non
eccezionalmente, in ambiti ristretti. Negli Stati Uniti è proprio in riguardo
alla politica estera che domina il sentimento dell’ “eccezionalismo americano”,
di un destino diverso e migliore che nelle storie pregresse del resto del
mondo: la crisi dell’imperialismo americano non si discute perché non c’è la
nozione di imperialismo, non degli Stati Uniti.
L’unico a interrogarsi oggi su “passato, presente
e futuro degli Stati Uniti”, sotto il titolo “L’impero in ritirata”, è il
professore Victor Bulmer-Thomas, che però è inglese, direttore di Chatam House,
il forum londinese delle relazioni internazionali – ed è specialista dell’America
Latina, con un po’ dell’acredine naturale in quell’area verso gli yanquis. Per la storiografia, la scienza
politica e i media americani il tema appare invece bizzarro: l’imperialismo è una
cosa europea, occupazione di territori, sfruttamento delle risorse, dominio su
popolazioni estranee. In America, subito da quando l’imperialismo è nato, con
la guerra contro la Spagna sul finire dell’Ottocento (tralasciando l’espansione
al Sud e all’Est, ai danni essenzialmente del Messico, e l’“apertura” forzata
del Giappone al commercio nel 1854, dieci anni dopo la guerra al Messico, con
le “navi nere” a vapore del commodoro Perry che spaventarono gli isolani), con
Theodor Roosevelt e sempre poi, si usano altri termini e concetti ma
contestando l’imperialismo.
Si parla di leadership
transatlantica, difesa della democrazia, politiche della libertà,
internazionalismo, anche di espansionismo e di politiche di grandezza, ma senza
un progetto imperiale dietro, la costruzione di un impero, e non a fini
imperialistici, di sfruttamento. Con effetti, anzi, semmai negativi per gli
stessi Stati Uniti. Uno studioso della politica estera americana a partire dal
1789, David
Hendrickson, collaboratore di “The Nation”, il “Manifesto” americano, lo
teorizza in “Republic in Peril” che
ora pubblica: l’America è bloccata, la democrazia vi è a rischio, a causa
dell’interventismo estenuato, in atto da quasi mezzo secolo, in ogni area del
mondo.
Entrambi, sia Bulmer-Thomas che Hendrikson, ritengono che l’America si
stia restringendo, sui tre piani, economico, politico e militare, culturale. Ma
entrambi, post- o pre-trumpiani, affermano anche che l’America può rafforzare
la presenza internazionale riducendo gli impegni militari fuori del territorio
nazionale, impegni “overextended”.
Femmicidio – Era legale fino a non molti anni fa, sotto il titolo “delitto d’onore”, e tuttora lo è in
larghe parti del globo. In Italia fino al 1981, quando infine fu abolito a
seguito di due referendum popolari, quello a conferma del divorzio nel 1974 e
quello, nello stesso 1981, a conferma della legge del 1978 che introduceva
l’aborto. Due conferme a larghissima maggioranza, del 60 e dell’85 per cento
rispettivamente, a prevalenza femminile. Nonché a seguito della riforma del
diritto di famiglia introdotta nel 1975
dal primo centro-sinistra. L’assassinio di una congiunta, moglie o fidanzata, figlia, sorella, perfino nuora e cognata, i suoceri avevano anch’essi titolo a
uccidere, e i fratelli del marito-fidanzato, per violazione di un “codice d’onore”
a carattere esclusivamente sessuale. Non se la congiunta era ladra per esempio,
o violenta. Il “codice d’onore” puniva l’adulterio, anche solo in pensieri e
parole, il tradimento della promessa, la condotta “immorale”. Sulla base
unicamente del convincimento soggettivo della persona “offesa”, il congiunto maschio,
anche a dispetto dell’evidenza contraria. E comunque senza necessità di un giudizio
previo: molti casi sono celebri di delitti d’onore anche estremamente crudeli
del tutto immotivati.
Stendhal, curiosone delle cose italiane, ne racconta
uno specialmente atroce ne “La duchessa di Paliano”. La duchessa Violante (da
nubile variamente nominata: D’Alife, Cardona o Diaz-Garlon, comunqne figlia del
conte ispano-partenopeo Antonio D’Alife e di Cornelia Piccolomini) viene garrotata
dal fratello freddamente, cambiando la corda perché la prima non era solida, su
giudizio e ordine del marito, Giovanni Carafa. Il quale però non era convinto
del tradimento della moglie, madre dei suoi due figli e incinta di lui al sesto
mese. E aveva già personalmente ucciso la testimone d’accusa, Diana Brancacci,
una domestica gelosa, di cui aveva scoperto la fallacia.
La duchessa fu garrotata nel racconto che
Stendhal ha tratto dagli atti dell’inchiesta che il papa Pio IV, nemico dei
Carafa, successivamente ordinò sull’accaduto. Ma secondo altre testimonianze al
processo, che Adriano Prosperi ha esumato nella sua biografia del cardinale
Carlo Carafa, fratello del duca Giovanni, fu strangolata con le mani dallo stesso
cardinale, avente diritto in qualità di cognato. In margine al racconto, sul manoscritto
della cronaca cinquecentesca, Stendhal ha annotato: “L’onore romano esigeva, nel 1560, che i parenti
di una donna leggera, padre, figlio, marito, suocero, la facessero perire”. E
cita i casi di “Maria dei Medici (non la regina)”, ma non dice quale, “la
vecchia principessa Santacroce, la duchessa di Paliano”.
Nel racconto Stendhal ricorda che “il principe Orsini”, Paolo Giordano, “sposò la sorella del granduca di Toscana “, Isabella, “la credette infedele e la fece avvelenare nella stessa Toscana, col consenso del granduca suo fratello. Parecchie principesse del casato dei Medici sono morte così”. Stendhal sbaglia i particolari ma il fatto c’è. Isabella era figlia e non sorella di Cosimo I dei Medici - e di Eleonora di Toledo, la figlia del viceré spagnolo a Napoli. Sposata a quattordici anni, lui di quindici, “celebre per la sua bellezza, la sua cultura e la sua saggezza e lodata nelle opere di moltissimi artisti e letterati” (wikipedia), fu strangolata venti anni dopo, nel 1576, personalmente da Paolo Giordano, non fatta avvelenare. Senza l’accordo di Cosimo I, che intanto era morto. Paolo Giordano Orsini persevererà, facendo assassinare sette anni dopo a Roma, dove si era rifugiato per sfuggire alla giustizia granducale, il marito di Vittoria Accoramboni – un’altra storia avvincente delle “Cronache italiane” di Stendhal – per farsene l’amante senza ostacoli. Il marito essendo nipote del papa regnante Sisto V, Orsini dovette lasciare anche gli Stati pontifici, e si portò appresso l’amante. Che pochi mesi dopo la sua morte, nello stesso 1585, restò vittima di un delitto d’onore, assassinata da Ludovico Orsini di Monterotondo, per vendicare il fratello Roberto morto in un faida con Paolo Giordano.
Nel racconto Stendhal ricorda che “il principe Orsini”, Paolo Giordano, “sposò la sorella del granduca di Toscana “, Isabella, “la credette infedele e la fece avvelenare nella stessa Toscana, col consenso del granduca suo fratello. Parecchie principesse del casato dei Medici sono morte così”. Stendhal sbaglia i particolari ma il fatto c’è. Isabella era figlia e non sorella di Cosimo I dei Medici - e di Eleonora di Toledo, la figlia del viceré spagnolo a Napoli. Sposata a quattordici anni, lui di quindici, “celebre per la sua bellezza, la sua cultura e la sua saggezza e lodata nelle opere di moltissimi artisti e letterati” (wikipedia), fu strangolata venti anni dopo, nel 1576, personalmente da Paolo Giordano, non fatta avvelenare. Senza l’accordo di Cosimo I, che intanto era morto. Paolo Giordano Orsini persevererà, facendo assassinare sette anni dopo a Roma, dove si era rifugiato per sfuggire alla giustizia granducale, il marito di Vittoria Accoramboni – un’altra storia avvincente delle “Cronache italiane” di Stendhal – per farsene l’amante senza ostacoli. Il marito essendo nipote del papa regnante Sisto V, Orsini dovette lasciare anche gli Stati pontifici, e si portò appresso l’amante. Che pochi mesi dopo la sua morte, nello stesso 1585, restò vittima di un delitto d’onore, assassinata da Ludovico Orsini di Monterotondo, per vendicare il fratello Roberto morto in un faida con Paolo Giordano.
Per onore s’intende nelle legislazioni che ancora
lo consentono, in molti paesi islamici, un valore rilevante per la stabilità
sociale, e nei rapporti familiari. Dando credito paradossalmente alla donna di
un valore decisivo per la stabilità familiare e sociale, mentre non lo è la
dissolutezza anche spinta dell’uomo,
marito o padre. Di fatto l’onore che il codice d’onore protegge(va) è la reputazione,
non l’ordine sociale: l’opinione della comunità, compresi il pettegolezzo e la
calunnia.
Moro – Non c’è solo Otello, il Moro di Venezia che Shakespeare
trasse dagli “Ecatomiti” di Giambattista Giraldi Cinzio. La pratica era diffusa
dopo la tratta degli schiavi anche in Europa di fare figli evidentemente con donne nere. Famoso è il caso di Puškin, che aveva tratti negroidi derivati da un
nonno. E di Dumas. Ma già prima della tratta c’erano casi di commistione razziale. Il più
noto e evidente è Alessandro dei Medici “Il Moro”, che il Bronzino ha ritratto
senza possibilità di mascheramenti. Alessandro fu “signore di Firenze” dal 1523
al 1527 e dal 1530 al 1532, quindi duca di Firenze, il primo Medici a essere
insignito di un titolo nobiliare, dal 1532 al 1537, quando venne assassinato
dal cugino Lorenzino dei Medici. Era figlio riconosciuto di Lorenzo dei Medici
duca di Urbino, quindi nipote in linea diretta del Magnifico. Ma figlio naturale
probabilmente del cardinale Giulio dei Medici, che poi sarà papa Clemente VII. Governò
Firenze dopo la sconfitta e la capitolazione della Repubblica, cui Clemente VII
riuscì con le armi spagnole di Carlo V. Da questi insignito per matrimonio, e
per le mene del papa, del titolo nobiliare, che faceva di Firenze una signoria.
Cresciuto alla corte imperiale spagnola di Carlo V, a Bruxelles e a Madrid, ne portò gli usi a Firenze,
fino a trasgredire le regole della resa della Repubblica, che prevedevano il
mantenimento delle istituzioni rappresentative – il disegno signoriale sarà perfezionato
dal successore Cosimo I, lontano cugino del “Moro”. Alessandro fu assassinato
senza motivo da Lorenzino, che ne era l’amasio, se non per gelosia. Era stato
sposato da pochi mesi a Margherita d’Asburgo, la figlia naturale legittimata di
Carlo V con una arazziera fiamminga.
Prima di Alessandro dei Medici era stato Moro celebre uno Sforza, Ludovico, quello
che meglio illustrò Milano, governando la città, come reggente e poi come
duca, per gli ultimi venti anni del Quattrocento, patrono di Leonardo e altri
artisti, committente dell’“Ultima cena”. Sotto l’“impresa” personale: “Per Italia
nettar d’ogni bruttura”.
Ludovico fu figlio, il quarto, di Francesco Sforza,
il condottiero, anche lui di colorito scuro, tratti marcati, capelli crespi
neri, nato a Cigoli, nel comune di San Miniato in Toscana, non si sa come. Francesco
Sforza, primo duca di Milano, ebbe cancelliere Cicco Simonetta, il “messer
Cecco” di Machiavelli, “Istorie fiorentine”, cap. XVII, “uomo per prudenza e per
lunga pratica eccellentissimo”, versato in greco, latino, ebraico, francese,
tedesco e spagnolo, che gli procurò il titolo nobiliare a alla discendenza, la moglie Polissena
Ruffo, castellana pro tempore del suo paese, e a Milano fece convenire il
meglio delle arti, tra i pittori Antonello da Messina, che ora la città
celebra, tra i musicisti Joacquin des Près.
Il paese di Simonetta era Caccuri in Calabria, un
piccolo borgo della Sila. Francesco “Cicco” era nato in famiglia di cui non si
sa nulla, allevato dai monaci basiliani, e aveva tratti anche lui marcati.
astolfo@antiit.eu
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