L’impianto anche resta valido:
l’Italia arranca, e il Sud con essa, per il liberalismo asfittico, dall’unità
al fascismo. Che di quel liberalismo è l’esito, non la negazione: “Il liberalismo
italiano si sviluppò nel dominio incondizionato della borghesia… Liberalismo e fascismo,
che veduti in chiave meramente ideologica si contrappongono in antitesi
invincibile, si legano logicamente”. Impianto ribadito a ogni passo. Di Giustino
Fortunato - che ricorda empaticamente, benché contestandogli, coi dati, l’“abbaglio”
sulla “buona economia” borbonica – riporta in più punti il bon mot che Nino Valeri ha registrato: “Il fascismo non è una rivoluzione, il fascismo è una rivelazione”. Fortunato per questo anche di fatto, sembra
dirlo Salvadori: “Vivrà abbastanza da individuare l’anima reazionaria della
borghesia italiana”.
Questa tesi era contestata
ancora prima che fosse formulata così ampiamente, già negli anni 1950 – “Il mito
del buongoverno” è del 1960. E poi da Spadolini, Rosario Romeo, Galli della
Loggia, e altri estimatori del giolittismo, se non del trasformismo – “purché
si governi”. Ma è fuori di dubbio che il liberalismo è in Italia sempre
asfittico. Anche dopo ottant’anni di repubblica. Figlio dell’unificazione
rapace e della manomorta, dell’appropriazione facile e indebita di ogni bene ,
ecclesiastico come meridionale – il concetto di pubblico in Italia è molto privato.
E perciò poco produttivo
economicamente, e per niente riproduttivo politicamente. La tesi di Croce nella
“Storia d’Italia”, che Salvadori contesta, seppure rispettosamete (fa contestare
da Salvemini e altri), del “non possiamo non dirci liberali”, o del progresso
in democrazia, è agli occhi di tutti puro idealismo.
Massimo L. Salvadori, Il mito del buongoverno.
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