giovedì 21 marzo 2019

Il tradimento della borghesia è antico

Una storia del meridionalismo un po’ invecchiata – “La questione meridionale da Cavour a Gramsci” è il sottotitolo. Della dozzina di ampi capitoli che la compongono, per quasi seicento pagine, monografie su singoli autori-personaggi, alcuni sono sorpassati, per vari motivi: Turiello, Napoleone Colajanni, Ciccotti, lo stesso finale, “La conclusione rivoluzionaria del meridionalismo. Dorso e Gramsci”. Il lungo saggio su Salvemini, un centinaio di pagine, è più testimonianza della passione politica di Salvadori. Ma gli altri sono eccellenti, e praticamente nuovi, specie i saggi sui conservatori progressisti: Pasquale Villari, Franchetti, Sonnino, figure che l’inglese chiana high tory, conservatori intelligenti, economisti e sociologi politici realisti, per quanto reazionari di programma. Più un’eccellente trattazione ancora vergine, che andrebbe ripresa col leghismo, “L’interpretazione razzistica dell’inferiorità meridionale” – Orano, Niceforo, Lombroso, Sergi.
L’impianto anche resta valido: l’Italia arranca, e il Sud con essa, per il liberalismo asfittico, dall’unità al fascismo. Che di quel liberalismo è l’esito, non la negazione: “Il liberalismo italiano si sviluppò nel dominio incondizionato della borghesia… Liberalismo e fascismo, che veduti in chiave meramente ideologica si contrappongono in antitesi invincibile, si legano logicamente”. Impianto ribadito a ogni passo. Di Giustino Fortunato - che ricorda empaticamente, benché contestandogli, coi dati, l’“abbaglio” sulla “buona economia” borbonica – riporta in più punti il bon mot che Nino Valeri ha registrato: “Il fascismo non è una rivoluzione, il fascismo è una rivelazione”.  Fortunato per questo anche di fatto, sembra dirlo Salvadori: “Vivrà abbastanza da individuare l’anima reazionaria della borghesia italiana”.
Questa tesi era contestata ancora prima che fosse formulata così ampiamente, già negli anni 1950 – “Il mito del buongoverno” è del 1960. E poi da Spadolini, Rosario Romeo, Galli della Loggia, e altri estimatori del giolittismo, se non del trasformismo – “purché si governi”. Ma è fuori di dubbio che il liberalismo è in Italia sempre asfittico. Anche dopo ottant’anni di repubblica. Figlio dell’unificazione rapace e della manomorta, dell’appropriazione facile e indebita di ogni bene , ecclesiastico come meridionale – il concetto di pubblico in Italia è molto privato. E perciò poco produttivo economicamente, e per niente riproduttivo politicamente. La tesi di Croce nella “Storia d’Italia”, che Salvadori contesta, seppure rispettosamete (fa contestare da Salvemini e altri), del “non possiamo non dirci liberali”, o del progresso in democrazia, è agli occhi di tutti puro idealismo.  
Massimo L. Salvadori, Il mito del buongoverno.

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