Il racconto scontato
dell’inferno, di fame, percosse, insulti. Tra i detenuti, per un po’ di spazio,
una goccia di zuppa, un posto alle latrine nella ricorrente dissenteria. E per
le gerarchie che vi si stabilivano con i kapò di vario ordine, tedeschi politici
o criminali, polacchi per la conoscenza del tedesco, interpreti, detenuti con
statuto privilegiato, esecutori volenterosi dell’organizzazione distruttiva del
campo. Sotto la sorveglianza distaccata delle SS, che quell’umanità vogliono
non umana, e il disprezzo e gli abusi dei civili tedeschi in fabbrica. Molti
gli italiani, senza nome, pestati, sanguinanti, caduti – una delle ultime scene
è di uno “studente di Bologna”, che la SS seleziona senza ragione per
assassinarlo, durante l’ultimo trasferimento.
L’ultimo trasferimento, a
piedi, su trattore, in treno, da Gandersheim, presso Goslar, a Halle, Dresda, Praga, Dachau (Monaco di
Baviera), è un viaggio follemente ben organizzato. A Nord, all’Est e a Sud, per andare verso
l’Ovest. Prima del quale deboli e ammalati vengono uccisi, in piccolo gruppi e
singolarmente – uno dei tanti trasferimenti, ora si sa, per cancellare la
vergogna dei lager, nel quadro del
tentativo di Himmler di farsi controparte credibile, lui e le stesse SS, degli
Alleati nella sconfitta. A Praga, dove non si parla tedesco, e il tedesco di
guardia “deve stare attento”, l’unico segno di umanità delle quasi quattrocento
dense pagine: una donna alla stazione regala tre pacchetti di pane “e qualche
sigaretta”.
Benché scontato, il racconto
mantiene però la carica che lo impose all’uscita, nel 1947: una sorta di
disperata vitalità. Riflessa nell’ossessività: la lunga narrazione è il
dipanarsi di un filo sottile di resistenza attraverso le stesse ripetute
quotidiane aggressioni, tra personaggi alla fine di nessuno spessore, ma
schierati in una sorda battaglia per l’“umanità”. Non per la sopravvivenza, o
meglio per la sopravvivenza ma non individuale, personale: “Le SS che ci
confondono non riusciranno mai a fare in modo che noi ci si confonda” (104);“Più
si è negati dalle SS come uomini, più si accrescono le possibilità di
affermarsi come tali” (114). Più di tutto pesa, e suscita odio, l’odio dei
civili. Ma la “filosofia” umanitaria è indelebile (256-8): “Le SS non possono
cambiare la nostra specie… Noi restiamo uomini, finiremo come uomini… Proprio
perché siamo uomini come loro, le SS in
definitiva saranno impotenti davanti a noi”.
Fu il secondo contributo di
conoscenza dei lager, nel 1947, dopo
quello dello stesso 1945 di David Rousset, “L’universo concentrazionario”.
Entrambi sui campi di lavoro, prima che emergesse la realtà dei campi di
sterminio. Con Primo Levi, che pubblicava nello stesso 1947 il racconto della
sua vicenda, “Se questo è un uomo”, ma nell’indifferenza, malgrado una buona
recensione di Calvino – ma rifiutato dallo stesso editore di Calvino, Einaudi, a opera di Pavese e Natalia Ginzburg; altri racconti della persecuzione degli ebrei, già nel
1945, e poi nel 1946 e nello stesso 1947, erano caduti in Italia nella
disattenzione. E con “I dari di Anna Frank”,
pubblicati in Olanda sempre nel 1947.
Antelme, marito allora di
Margherite Duras, membro di un gruppo di Resistenza organizzato da Mitterrand,
era stato preso a Parigi per una delazione nel 1944. Era stato salvato in
extremis a Dachau, confinato al lazzaretto dei sospetti di tifo, cioè dei moribondi,
da Jean Mascolo, che era divenuto l’amante di Marguerite Duras, e dallo stesso
Mitterrand. Il ritrovamento a Dachau e il ritorno sono raccontati da Duras ne
“Il dolore”. Che termina con le immagini di Antelme, Duras e Gina Vittorini sul
mare a Bocca d Magra. Vittorini amò molto questa testimonianza, la fece tradurre
nel 1954 per i “Gettoni” – la traduzione, toscaneggiante, è della stessa Ginetta
– e la presentò, scrive Cavaglion, con “uno dei suoi migliori risvolti”.
Lo stesso tema, nota
Cavaglion, aveva appassionato Vittorini nella Resistenza, in “Uomini e no”, la
riflessione del 1944. Si rifletteva, nella temperie politica del dopoguerra,
molto schierata, molto divisiva, con occhio perspicace sulla storia, sul farsi
dell’umanità. Con un occhio si direbbe ottimista, in rispetto all’obbrobrio
ancora vivo con cui si confrontava, ma comunque vigile – il Millennio è di colpo un altro
mondo?
Robert Antelme, La specie umana, Einaudi, pp. XIX + 343
€ 14
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