L’eternità non dura più della vita.
Possiamo dunque permetterci tutto. Ma in prospettiva. Bizzarro è invece il
desiderio che abbiamo costante di rifare la storia, questa fabbrica
dell’antichità che sono la filologia, l’epigrafia, la glottologia, il carbonio,
di rifare comportamenti, credenze, leggi, mentalità, Privatleben non
solo, ma anche divinità, anime, pietre, e ogni altro manufatto. Mentre si può
vivere con il falso, anche dichiarato, la bugia è più comoda. Hans von Meegeren
ha dovuto fare un processo per dimostrare che era l’autore di molti Vermeer, e
i giudici non volevano credergli. Lo psicologo inglese Cyril Burt ha lavorato
per un quarto di secolo con buoni risultati su inchieste immaginarie. Mungo
Bashi, invece, ha il torto di essere nero.
È bravissimo, poiché tutto è preciso e
corrisponde. E non è cattivo. Può averlo fatto per i soldi, è possibile. Ma uno
che viene dal bush si compra con una
birra: non ha il senso del denaro, che può valutare troppo se è poco, e
sperperare se è molto. Di sicuro non lo ha fatto per la gloria, i
riconoscimenti, la carriera, orizzonti ignoti nel continente. Resterà forse
negli annali, ma non per quanto lo concerne: non lo saprà e comunque non ha per
lui valore, ricorrere in nota a un libro, che in Africa, senza elettricità e refrigerazione,
o se manca la corrente, come ogni giorno avviene per lunghe ore, si decompone
in tre settimane. Lo ha fatto per bontà, per amicizia, per compiacere i Gunther
von Toul, paleoantropologi dilettanti, padre Brando, insaziabile, e il Vaticano,
uno stato che comanda a Dio. L’uomo africano è volentieri filosofo, ma
rudemente pratico, e la tentazione dell’inganno alimenta, nell’irrilevanza del
denaro, anche di onestà e bontà. La storia che la prima donna sia stata creata
in Africa è onorevole, e domani, chissà, le sue visioni s’invereranno, un osso
si troverà che al radiocarbonio si rivelerà il primo Jack o Lucy dell’umanità
(nel 1974 verrà alla luce proprio in Kenya, in un punto della faglia detta Rift
Valley, che parte da Damasco, il reperto fossile 288-1, di australopiteco
femmina, battezzato “Lucy”, n.d.C.). Gli acquirenti invece, studiosi,
collezionisti, funzionari coloniali, sono avidi.
Mungo ha sentito più volte che cercavano
la prima Eva. In numerose carte di Padre Brando il paradiso terrestre è segnato
in Africa. Con loro ha sfogliato mappe e riconsiderato ipotesi, ha annusato tracce,
pietre, alberi, insetti, la terra ai vari livelli negli scandagli, li ha visti
cercare con ansia, con ira, ogni avanzo di ossa, polire, misurare, radiografare,
ha apprezzato la dedizione che portavano alla loro passione, ha apprezzato la
loro amicizia, quel considerarlo parte di loro stessi, e non ha voluto
deluderli. La storia è semplice. Ma Mungo la nega. Poiché non ha compiuto
violenza, non ha barato per un tornaconto, non ha fatto nulla di diverso da
quello che loro fanno. Altri gruppi di paleontologi dottrinariamente avversi,
la scuola britannica, la scuola americana, non hanno lo stesso probo
disinteresse di Mungo Bashi. La storia si fa. Si racconta, si scrive. La storia
è un desiderio.
Cosa cambia un Afarensis in più o
in meno? O uno falso invece di uno vero. E chi può dire che la prima Eva non
sia quella? Si vuole la prima Eva in Etiopia, o in Sud Africa, e perché non in
Kenya? Mungo si è limitato a far trovare la prima donna là dove era cercata,
sotto le acque putride del pantano in un angolo dimenticato del lago Turkana,
buono per i coccodrilli. Ci sono voluti quarant’anni per dimostrare che l’Uomo
di Piltdown nel Sussex, calotta umana con mandibola di scimmia, non era un
progenitore umano ma un falso dello stimato avocato Dawson, o una beffa ai suoi
danni, e del credulone Conan Doyle, il creatore di Sherlock Holmes.
Antichizzare i reperti è anche segno di abilità.
Il risentimento di Mungo Bashi, come di
ogni altro in Kenya, contro i britannici è odio di famiglia, giustificato dalla
storia coloniale. Mungo è del resto nomignolo di san Kentigern. O Kentegern,
Kentegernus, Kentigernus, Conthigernus, Conthi-girnus, Cyndeyrn, l’abate e
missionario primo vescovo di Glasgow, evangelista dell’antico regno celtico
della Cumbria nel 600. San Kentegern, “l’Altissimo”, fu chiamato anche Mungo,
“mio caro amico”. Questo nomignolo gli fu dato dal suo maestro, il vescovo san
Servo, tedesco. C’è anche un esploratore di nome Mungo, Mungo Park, ma ricorre
solo nell’Espasa Calpe, l’enciclopedia spagnola, che peraltro lo dice inglese
mentre ne dà la nascita in Scozia, a Foulshields, il 10 settembre 1771.
L’esploratore vantava la scoperta in Africa a ventiquattro anni, nello stesso 1795 in cui Napoleone
effettuava il suo primo colpo di Stato, alla confluenza dei fiumi Senegal,
Volta e Niger, che non confluiscono in nessun posto, di una città grande quanto
Londra, che non si è ancora riusciti a localizzare. Il “mio caro amico” ricorre
infine in “Stark Munro”, il romanzo pseudonimo in cui Conan Doyle rievoca
spiritosamente i suoi inizi di medico.
Il solo cruccio di Mungo Bashi è di aver
perduto l’amicizia dei diplomatici tedeschi, sempre premurosi benché ossessivi,
e di padre Brando. Il quale però persevera: malgrado il falso di Mungo resta
convinto che il paradiso terrestre è in Kenya. È straordinaria l’irrilevanza
delle scienze in ambito umano, soprattutto quando pretendono a giustizia, cioè
alla verità. Per il resto Mungo è noncurante e servizievole, quale lo vuole la
sua natura curiosa. Vivendo in Africa, non sa che la filologia innova, sì,
muove molto, ma è una parte della realtà, vela l’ipocrisia del linguaggio
doppio, in politica, nella storia, in letteratura, e alla fine è un rifiuto
delle cose – la scienza delle parole ha portato alla perdita di significato
delle parole, e quindi delle cose. Filosoficamente, potrebbe chiedere qual è la
verità della storia. Ma sa che ce n’è una.
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