mercoledì 6 marzo 2019

La storia si fa


L’eternità non dura più della vita. Possiamo dunque permetterci tutto. Ma in prospettiva. Bizzarro è invece il desiderio che abbiamo costante di rifare la storia, questa fabbrica dell’antichità che sono la filologia, l’epigrafia, la glottologia, il carbonio, di rifare comportamenti, credenze, leggi, mentalità, Privatleben non solo, ma anche divinità, anime, pietre, e ogni altro manufatto. Mentre si può vivere con il falso, anche dichiarato, la bugia è più comoda. Hans von Meegeren ha dovuto fare un processo per dimostrare che era l’autore di molti Vermeer, e i giudici non volevano credergli. Lo psicologo inglese Cyril Burt ha lavorato per un quarto di secolo con buoni risultati su inchieste immaginarie. Mungo Bashi, invece, ha il torto di essere nero.

È bravissimo, poiché tutto è preciso e corrisponde. E non è cattivo. Può averlo fatto per i soldi, è possibile. Ma uno che viene dal bush si compra con una birra: non ha il senso del denaro, che può valutare troppo se è poco, e sperperare se è molto. Di sicuro non lo ha fatto per la gloria, i riconoscimenti, la carriera, orizzonti ignoti nel continente. Resterà forse negli annali, ma non per quanto lo concerne: non lo saprà e comunque non ha per lui valore, ricorrere in nota a un libro, che in Africa, senza elettricità e refrigerazione, o se manca la corrente, come ogni giorno avviene per lunghe ore, si decompone in tre settimane. Lo ha fatto per bontà, per amicizia, per compiacere i Gunther von Toul, paleoantropologi dilettanti, padre Brando, insaziabile, e il Vaticano, uno stato che comanda a Dio. L’uomo africano è volentieri filosofo, ma rudemente pratico, e la tentazione dell’inganno alimenta, nell’irrilevanza del denaro, anche di onestà e bontà. La storia che la prima donna sia stata creata in Africa è onorevole, e domani, chissà, le sue visioni s’invereranno, un osso si troverà che al radiocarbonio si rivelerà il primo Jack o Lucy dell’umanità (nel 1974 verrà alla luce proprio in Kenya, in un punto della faglia detta Rift Valley, che parte da Damasco, il reperto fossile 288-1, di australopiteco femmina, battezzato “Lucy”, n.d.C.). Gli acquirenti invece, studiosi, collezionisti, funzionari coloniali, sono avidi.
Mungo ha sentito più volte che cercavano la prima Eva. In numerose carte di Padre Brando il paradiso terrestre è segnato in Africa. Con loro ha sfogliato mappe e riconsiderato ipotesi, ha annusato tracce, pietre, alberi, insetti, la terra ai vari livelli negli scandagli, li ha visti cercare con ansia, con ira, ogni avanzo di ossa, polire, misurare, radiografare, ha apprezzato la dedizione che portavano alla loro passione, ha apprezzato la loro amicizia, quel considerarlo parte di loro stessi, e non ha voluto deluderli. La storia è semplice. Ma Mungo la nega. Poiché non ha compiuto violenza, non ha barato per un tornaconto, non ha fatto nulla di diverso da quello che loro fanno. Altri gruppi di paleontologi dottrinariamente avversi, la scuola britannica, la scuola americana, non hanno lo stesso probo disinteresse di Mungo Bashi. La storia si fa. Si racconta, si scrive. La storia è un desiderio.
Cosa cambia un Afarensis in più o in meno? O uno falso invece di uno vero. E chi può dire che la prima Eva non sia quella? Si vuole la prima Eva in Etiopia, o in Sud Africa, e perché non in Kenya? Mungo si è limitato a far trovare la prima donna là dove era cercata, sotto le acque putride del pantano in un angolo dimenticato del lago Turkana, buono per i coccodrilli. Ci sono voluti quarant’anni per dimostrare che l’Uomo di Piltdown nel Sussex, calotta umana con mandibola di scimmia, non era un progenitore umano ma un falso dello stimato avocato Dawson, o una beffa ai suoi danni, e del credulone Conan Doyle, il creatore di Sherlock Holmes. Antichizzare i reperti è anche segno di abilità.
Il risentimento di Mungo Bashi, come di ogni altro in Kenya, contro i britannici è odio di famiglia, giustificato dalla storia coloniale. Mungo è del resto nomignolo di san Kentigern. O Kentegern, Kentegernus, Kentigernus, Conthigernus, Conthi-girnus, Cyndeyrn, l’abate e missionario primo vescovo di Glasgow, evangelista dell’antico regno celtico della Cumbria nel 600. San Kentegern, “l’Altissimo”, fu chiamato anche Mungo, “mio caro amico”. Questo nomignolo gli fu dato dal suo maestro, il vescovo san Servo, tedesco. C’è anche un esploratore di nome Mungo, Mungo Park, ma ricorre solo nell’Espasa Calpe, l’enciclopedia spagnola, che peraltro lo dice inglese mentre ne dà la nascita in Scozia, a Foulshields, il 10 settembre 1771. L’esploratore vantava la scoperta in Africa a ventiquattro anni, nello stesso 1795 in cui Napoleone effettuava il suo primo colpo di Stato, alla confluenza dei fiumi Senegal, Volta e Niger, che non confluiscono in nessun posto, di una città grande quanto Londra, che non si è ancora riusciti a localizzare. Il “mio caro amico” ricorre infine in “Stark Munro”, il romanzo pseudonimo in cui Conan Doyle rievoca spiritosamente i suoi inizi di medico.
Il solo cruccio di Mungo Bashi è di aver perduto l’amicizia dei diplomatici tedeschi, sempre premurosi benché ossessivi, e di padre Brando. Il quale però persevera: malgrado il falso di Mungo resta convinto che il paradiso terrestre è in Kenya. È straordinaria l’irrilevanza delle scienze in ambito umano, soprattutto quando pretendono a giustizia, cioè alla verità. Per il resto Mungo è noncurante e servizievole, quale lo vuole la sua natura curiosa. Vivendo in Africa, non sa che la filologia innova, sì, muove molto, ma è una parte della realtà, vela l’ipocrisia del linguaggio doppio, in politica, nella storia, in letteratura, e alla fine è un rifiuto delle cose – la scienza delle parole ha portato alla perdita di significato delle parole, e quindi delle cose. Filosoficamente, potrebbe chiedere qual è la verità della storia. Ma sa che ce n’è una.



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