Nulla da eccepire alla fine
sul processo. Che si impiantava su fondamenta legali innovative, rispetto alla giurisprudenza
bimillenaria, ma non fu il solito processo politico, del vincitore sui vinti. Il
dibattimento e le arringhe finali, della difesa e dell’accusa, 410 dieci sedute,
accertarono responsabilità precise, e le sentenze le rispecchiano – anche se
con incongruenze, come avviene per tutte le sentenze (quella di Göring fu lunga
250 pagine…).
Il processo di Norimberga fu poi seguito da vari
processi “nazionali”, delle quattro potenze alleate nele aree da esse occupate.
Nella “denazificazione” col “metodo Stalin” furono giustiziate “non meno di 43
mila persone”. Ci fu così un processo dei medici, uno dei giuristi – non di
Carl Schmitt, il maggior giurista compromesso -, delle Einsatzgruppen, dei funzionari, degli industriali. Nella Germania
Ovest, “nel complesso, i dodici processi secondari videro alla sbarra 177
imputati, con 144 condanne, delle quali ventisei a morte e venti all’ergastolo,
mentre a novantotto imputati venne inflitta una pena detentiva inferiore a
venticinque anni”.
Il finale fu di altro tipo,
seppure per voler essere strettamente giuridico, ligio alle virgole: “Mentre in
varie parti d’Europa manifestazioni di protesta si levano contro la presunta
mitezza delle pene e nella Berlino controllata dai sovietici addirittura si sciopera,
alcuni senatori americani fanno rilevare che l’impiccagione è contraria ai
principi della legislazione statunitense”. Dibattito segue – ma si seguirà il “modo
inglese”, seppure con boia Americano. Era stato comunque un processo politico,
spettacolare. Rita Hayworth si fece vedere, e altre celebrità. Fiorello La
Guardia, “il sindaco italo-americano di New York di origine ebrea per parte di
madre, la cui sorella Gertrude era stata
internata a Mauthausen”, volle
gli autografi degli accusati. Göring, istrionico per tutto il processo, si
sottrasse con destrezza alla vergogna della corda, avvelenandosi col cianuro - era
riuscito a contrabbandarlo malgrado i controlli, in un vasetto di crema per le
mani, del cui recupero tra gli effetti personali incarica in articulo mortis un tenente americano, che gli fa consegnare la
crema dal dottore tedesco all’ultima visita.
Dietro il processo, però, il
tema è greve, la responsabilità collettiva, seppure politica e non giudiziaria.
Di una guerra per molti aspetti criminale, che non si può ritenere colpa di una
dozzina di persone. Ma rimane fuori da Norimberga. La verità della denazificazione
finisce per essere quindi questa, detta in breve alla fine – ed è il contrario
di quello che Scevola è venuto rappresentando: “Già dal 1944, ma in particolare
dopo la fine della guerra, nella zona d’occupazione americana Eisenhower in
persona aveva promosso la «campagna di colpa collettiva» come primo atto di denazificazione:
oltre alla propaganda e al controllo dei mezzi di comunicazione, si puntò su
visite ai lager, allo scopo di inculcare l’idea che il nazismo non fosse un’entità
separata dal popolo tedesco e di scoraggiare teorie «autoassolutorie»”. Singolare
divieto, quello di celebrare la Resistenza. Che però la Repubblica Fedarale, la
nuova Germania, farà proprio: nessun ricordo, nessuna festa, nessun
riconoscimento, a un’opposizione al nazifascismo che fu la più vasta e radicale in
Europa. Nonché la colpa collettiva, la Germania rifiuta – non lo dice ma agisce
come se – la colpa della guerra, e al fondo ritiene gli oppositori dei traditori.
Ha eseguito le condanne di Norimberga, ma fino all’amnistia di Adenauer nel 1951,
sulla falsariga di quella di Togliatti cinque anni prima – ma diverse erano le
imputazioni in Italia e in Germania - e nel quadro della politica di scontro con Mosca, con un altro nemico esterno. Mentre era sollecita pagatrice
delle pensioni a tutti gli aguzzini espatriati in Sud America e altrove. E si
adoperava per la liberazione di criminali di guerra riconosciuti e condannati in
altre giurisdizioni, come Kappler in Italia.
Norimberga, Corriere della sera, pp. 165, suppl. Gratuito al
giornale
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