domenica 3 marzo 2019

Letture - 377

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Cultura – Non è baluardo contro il male. “Paesi con le culture più raffinate, la Germania, l’Italia, il Giappone, sono passati alla storia per le peggiori atrocità”, Lars von Trier, uno specialista.

Dante – Ulisse è “l’originale doppio di D ante”, nell’esegesi di Jurij Lotman, “Testo e contesto”, p. 96.

L’aleppe del “Pape Satàn pape satàn aleppe”, come forma d’uso, diminutiva, non propriamente dispregiativa, di una cultura che si sapeva presente ma non coltivata, la prima lettera dell’alfabeto ebraico riducendo a filastrocca infantile, dice che Dante, pur colto, non era “interculturato”, come oggi si vorrebbe. Non era un comparatista, e non era necessario esserlo. Lo stesso che per l’ebraico avviene per l’islam, che compare nella “Commedia” come cosa ordinaria, di cui si parla, senza grande attenzione. Dante studiò molto ma non l’ebraico e nemmeno l’arabo. E viaggiò, ma non in terra infidelium, a differenza di san Francesco o dell’imperatore Federico II, e non mostra di saperne alcunché, se  non le nozioni volgari, né di curarsene.
È un limite, oggi. Allora il mondo arabo e islamico, fosse stato Dante un best-seller immediato, non se ne sarebbero meravigliati. Erano anche anni, quelli di Dante, in cui cristianità e islam non si combattevano: si fronteggiavano staticamente – divisi semmai e distratti al loro interno.

Fu praticamente sconosciuto in Francia – niente a fronte di Petrarca, Boccaccio, e anche l’Ariosto, l’Aretino, Machiavelli. Anche se già a fine Trecento Cristine de Pisan, la scrittrice italo-francese,  lo citava spesso, in lettere e in poesia, specie l’“Inferno”. E compara la “Commedia” favorevolmente rispetto al “Roman de la Rose”. Mentre Alain Chartier (call E-S) ne cita il distico su Costantino. “Ah Costantin, di quanto mal fu matre,\ non  la tua conversion, ma quella dote”. È del 17985 la prima traduzione dell’“Inferno”, a opera di Antoine Rivaroli, giornalista di origine italiana. La prima traduzione delle tre cantiche, a opera di Lamennais, sarà pubblicata nel 1855.

Un affascinante saggio della dantistica – dell’emeneutica dalle possibilità infinite – è la voce Treccani a proposito di Nimrod, Nembrotte in Dante, posto all’“Inferno” in quanto architetto di Babele, che muove un altro verso oscuro, il 67 del canto XXXI, “Raphèl mai amècche zabì almi”, misto si suppone di aramaico e ebraico: “Il Lemay, in un interessante saggio”, del 1962, “ ha ricordato che nella tradizione araba il nome di Nembrot designa un ribelle stupido e violento; ma, prima di lui, molti avevano sostenuto trattarsi di un'espressione araba, cui ognuno di essi offriva un particolare significato, secondo la vocalizzazione e la trascrizione proposta: “Esalta lo splendor mio nell’abisso, come sfolgorò per lo mondo” (Lanci); “Un pozzo ha rapito il mio splendore, ecco adesso il mio mondo” (Flügel, citato dal Filalete); “Quam stulte incedit fiumina Orci puer mundi mei” (D'Ammon, citato anch'esso dal Filalete); “Summa mea in fundum cecidit, vis gloria mundi” (Schier); “Ecco l’eccelso del mio splendore e della mia gloria; la mia superbia e la mia scienza è divenuta oscurità e abisso” (Lasinio); “Sono portante in alto il mio stendardo prolungato, questo è il mio regno” (Barbera); “Quest'abisso e io stesso siamo indotti allo stato di ebeti a causa della scienza” (Lemay). Sarebbe adunque un grido di orgoglio o un grido di avvilimento.
“Per altri si tratta di un'espressione che ha sempre origine in un linguaggio semitico, siriaco, caldaico, ecc., e in particolare ebraico. Il Landino fu forse il primo a proporre un accostamento alla lingua caldea, pur riconoscendo che l'espressione deve rimanere oscura per volontà del poeta stesso: non per cogliere la “sentenza intera”  dunque, ma per vedere il significato di qualche singola parola.
“Su questa via, s'interpretò in modi diversi l’intera espressione: “Per Dio, e perché son io venuto in questi pozzi? Torna indietro, nasconditi” (Venturi); “Contro chi vieni tu all’acque del gigante, al pozzo del Zabio?” (Maggi); “Nel pozzo oscuro a che te ne vai? Ritorna al mondo” (Barzilai); “Genti, e che? Abbandonate il gran lavoro?”; “Giganti, che gente che rasenta l'’bitacolo? segreto della bellezza!” (Guerri); “Gigante Dio di cento miei cubiti, esci a guerra con il mio manipolo” (Benini). Per il Guerri si tratterebbe di linguaggio ebraico deformato secondo la dottrina linguistica medievale; per il Nykl, sarebbe un testo ispirato almeno all’inizio dai testi talmudici; il Barzilai cita Brunetto Latini (e ci pare citazione felice), secondo il quale al tempo della torre di Babele la lingua ebraica diede origine alla lingua caldea: e qui saremmo nella fase di quel confuso trapasso linguistico.
Non mancano poi le interpretazioni più soggettive….”, etc.

Intraducibilità – È il segno della grande poesia per Hannah Arendt in uno dei suo ultimi scritti, “Remembering W.H.Auden” (“The New Yorker” 20 gennaio 1975). Lo dice di Auden come di Goethe e Puškin. Partendo dalla sinteticità dell’espressione poetica, che chiama “reticenza”: “La reticenza può essere la déformtion professionnelle del poeta”. Nel caso di Auden perché molta sua poesia sorge “dalla parola parlata, dagli idiotismi del linguaggio giornaliero”, dalla pratica: “Questa specie di perfezione è rara; la troviamo in alcune delle migliori poesie d Goethe, e deve esistere nella maggior parte delle opere di Puškin, perché la loro caratteristica è di essere intraducibili”.  

Italiano – Fu lingua veicolare dei dotti in Europa, insieme col latino, fino al primo Settecento – poi, con i philosophes, soppiantata dal francese. In casa Goethe c’era un istitutore d’italiano. Il padre di Goethe, Johann Caspar, scrisse un “Viaggio in Italia” in italiano – così come aveva fatto, a metà, Montaigne due secoli prima. Voltaire scrive spesso in italiano, per esempio alcune delle lettere d’amore alla nipote Marie Louise Mignot, “Madame Denis”, che leggeva e scriveva italiano. Troverebbe ora una risorgenza internazionale, come lingua di studio e non più di comunicazione, secondo la classifica 2018 stilata dalla rivista “Ethnologue”, pubblicazione del Sil International, la ong evangelica che studia la diffusione dela Bibbbia nelle varie lingue: dopo l’inglese, lo spagnolo e il cinese, a una certa distanza, l’italiano è la quarta lingua più studiata. A partire dall’anno 2014-2015, quando le iscrizioni nei 115 paesi i cui sono presenti istituti di cultura italiani e scuole Dante Alighieri hanno registrato un boom, passando dall’1,7 milioni del 2013-2014 a oltre 2 milioni. Nell’anno accademico 2016-2017 erano 2 milioni 145 mila.
In Europa però l’italiano ha un parte minima nell’insegnamento delle lingue, toccando solo l’1,1 per ceto degli studenti delle scuole. Al sesto posto, dietro, nell’ordine, inglese, francese, tedesco, spagnolo e russo.
L’italiano è agli ultimi posti anche come lingua parlata nell’uso quotidiano, al 21mo posto, con 67 milioni di parlanti, gli italiani residenti in Italia e quelli di prima\seconda generazione emigrati.

Latinità - Nasce dalla rotta, stando all’imperatore Augusto che la inventò, nella guerra di Troia: l’Occidente nasce da una disfatta a opera dei greci. E si perfeziona a opera di un anti-Machiavelli, il Possevino, gesuita di origini ebraiche, viaggiatore non memorabile nella Moscovia. Il quale selezionò le letture e redasse la ratio studiorum cui l’Occidente s’è conformato, un grafomane. Questo è importante saperlo, per la storia e per capirsi.

Lisbona – Fu fondata da Ulisse, secondo la “General Estoria” fatta redigere da Alfonso X il Savio a metà del Duecento. Ulisse intraprende il viaggio di ritorno, l’odissea, per la  nostalgia della moglie e del figlio, che non vede da venticinque anni, dopo avere creato la città di Ulixbona. Avendo infranto l’interdetto delle colonne d’Ercole, di non superare lo stretto di Gibilterra – tema di molte trattazioni classiche e bizantine.
Alle colone d’Ercole era arrivato, secondo la “General Estoria” – e secondo Dante – attraverso una via Herakleia, una via marittima che partiva da Cuma in Campania (la Gaeta di Dante, “prima che sì Enea la nomasse”): una via marittima interinsulare, che andava da un’isola all’isola vicina, condivisa, secondo Menendez Pidal, “Historia de España”, anche dagli arabi, perché la meno esposta alle insidie dei venti.

Tempo - “Caro amico, voglia scusarmi per la lunghezza di questa lettera”, scrisse Pascal, “non ho avuto il tempo di essere breve”. Voltaire lo riscrive più conciso: “Vi scrivo una lunga lettera perché non ho il tempo di scriverne una breve”.

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