domenica 10 marzo 2019

Letture - 378

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Brecht – Hannah Arendt lo legge all’insegna di una “ipocrisia inversa” (inverted hypocrisy), di lui come di W.A.Auden del quale sta scrivendo (“Remembering W.H.Auden”): di finti arrabbiati, di cattivi buoni e buonissimi. Che consiste, nel caso di Auden, “nell’indossare la maschera dello snob”, mentre in Germania si esprimeva “in una diffusa pretesa di malvagità”. A Berlino – dove Auden passò una stagione felice prima di Hitler. “A Berlino”, nota H.Arendt, “si scherzava su questa ipocrisia inversa di moda”. Era un  modo “di nascondere un’inclinazione irresistibile a essere buoni e fare il bene, qualcosa che entrambi si vergognavano di ammettere, meno che meno di proclamare”.
Di Auden Arendt trova che ha preso molto da Brecht, negli anni di Berlino e dopo (lo ha anche tradotto). Ma, di più, ha preso l’abito del mascheramento, della “ipocrisia inversa”. La bontà, continua Arendt, “plausibile per Auden poiché alla fine è diventato un cristiano”, può scioccare per Brecht, “ma un’attenta lettura dei suoi drammi e le poesie mi sembra invece che lo provino”. Con drammi quali “Il buon uomo di Sechuan” e “Santa Giovanna dei Macelli”, e i versi centrali dell’“Opera da tre penny”, là dove l’invito è ribadito alla bontà. “Ciò che ha condotto questi poeti profondamente apolitici nella scena politica caotica del nostro secolo è stato lo «zèle compatissant» di Robespierre, la spinta potente verso «les malheureux», distinta da ogni bisogno di azione per la felicità pubblica, o una desiderio di cambiare il mondo”.

Cronache italiane – Sono state una fonte preziosa per molti scrittori stranieri, su tutti Stendhal, ma non per gli italiani. Con l’eccezione del Ripamonti per Manzoni. 
Stendhal lasciò alla morte quattordici volumi di manoscritti italiani, racconti violenti di avventure vere, gran parte dei quali aveva fato ricopiare mentre era console a Civitavecchia.  Che Mérimée fece comprare dalla Bibliothèque Nationale. Da cui li ha ripresi il biografo Victor Del Litto, riproducendoli nel vol. XIX delle “Opere complete”.

Dante – È anche personaggio cinematografico. Lui in persona e non i suoi personaggi. In un film del 2014, “Il mistero di Dante”, di Louis Nero (Luigi Biancone). Interpretato da F. Murray Abrahams, con altri noti attori, e con Franco Zeffirelli. Un film di interviste ad artisti e critici, interpolato con sceneggiati delle opere e la vita di Dante.
Dante è impersonato dal regista. Abrahams, il personaggio principale, che lega le varie scene, il regista disse ispirato alla figura di René Guénon, l’esoterista francese del primo Novecento, autore nel 1928 di “L’esoterismo di Dante”, e a quella di Ibn Arabi, il mistico arabo del primo Duecento. Molto nel film si fa il caso di una Dante “fedele d’amore”, della omonima setta, o dei Rosacroce, altro gruppo esoterico.

Don Giovanni – Una epitome importante, se non propriamente la creazione del  Don Giovanni moderno, del “dongiovannismo”, ne fa Stendhal in una delle “Cronache italiane” introducendo il racconto “I Cenci”, in cui s’inventa di sana pianta il personaggio del padre. Ne fa una sorta di archetipo del dongiovannismo, il piacere satanico della trasgressione. Mentre la cronaca dell’epoca su cui Stendhal ha lavorato, e che ha conservata, lo dice un debosciato, e un debole benché violento, e piuttosto ottuso.
Il racconto “I Cenci” si apre con una lunga digressione sul personaggio. “Il don Giovanni di Molière è galante, senza dubbio, ma anzitutto è un uomo di buona compagnia”. Quello di Mozart “è già più vicino alla natura, e meno francese, pensa meno all’opinione degli altri”. C’è anche, c’era, un dongiovanni ateniese… In Italia ne trova solo due ritratti, “uno dei quali non posso assolutamente fare conoscere”, essendo l’epoca, gli anni 1830, “ipocrita” e “noiosa”. L’altro è Francesco Cenci.
Uno Stendhal perfido. Presentando Cenci, si chiede: “Perché in Francia i don Giovanni sono rari?” E si risponde: “Da noi le donne non sono più alla moda”.

Italiano – Risale a Stendhal, al racconto “La duchessa di Paliano”, l’osservazione che l’Italia è un paese dialettale: “In tutta questa bella Italia in cui l’amore ha seminato tanti avvenimenti tragici, tre città soltanto, Siena, Firenze e Roma, parlano press’a poco come scrivono; dappertutto altrove la lingua scritta è a cento leghe dalla lingua parlata”.

Passione italiana – La “passione” italiana di cui era appassionato, tema di molte sue apologie entusiaste, Stendhal la riteneva in realtà spenta. Lo precisa annotando “La duchessa di Castro” sul manoscritto italiano da cui ha estratto il racconto: “Si parla spesso della passione italiana, della passione sfrenata che apparve in Italia nel secoli XVI e XVII e che non è morta che ai giorni nostri, sotto l’imitazione dei costumi francesi e degli stili di vita alla moda di Parigi”. E in bella copia aprendo il racconto: “Ai nostri giorni questa bella passione è morta, del tutto morta, nelle classi che sono state raggiunte dall’imitazione dei costumi francesi e dei modi di agire alla moda a Parigi o a Londra”.

Scrivere – “Una fondamentale accuratezza di espressione è il solo e unico principio morale della scrittura”. Carver teneva questa raccomandazione di Pound su un cartoncino sei per dodici attaccato al muto accanto alla scrivania. E lo commenta così: “Non che questo basti, per carità, ma se uno scrittore ha la fortuna di possedere «una fondamentale accuratezza di espressione», beh, per lo meno è sulla strada giusta”.

Stendhal – Dominique Fernandez, che si è prodotto anche lui nel genere delle “cronache italiane”, seppure omoerotiche, lo fa un represso sessuale nell’edizione delle “Cronache italiane” che ha approntato nel 1973. O uno pudico. Nell’introduzione e nelle note rimarcando “la timidità sessuale”. Con un criterio preciso: l’alleggerimento-censura che i suoi racconti fanno di eccessi di varia natura, dalla sodomia al sadismo, che invece dettagliano le cronache di cui si è servito per i racconti, buona parte delle quali sono resoconti di processi. A proposito dei Cenci, della badessa di Castro, della duchessa di Paliano, di Vittoria Accoramboni, i suoi racconti sono sempre verecondi  in materia di sesso.

Lo “stile italiano” lo imbarazzava. Stendhal aveva amato e teorizzava lo stile di vita italiano: l’essere diretti invece che circonvoluti, l’espressione diretta dei sentimenti invece delle buone maniere ipocrite che rimproverava allo stile di vita francese, per vanità o per rispetto umano, la considerazione sociale. Ma non trovava nulla del genere da leggere in italiano, anzi l’opposto della rapidità, la semplicità, la sincerità. Una delusione talmente forte che la registra spesso, nei diari, in “Roma, Napoli, Firenze”. Qui, per es., il 2 marzo 1817: “Per ragioni a me sconosciute, il naturale semplice non piace nei libri in Italia, hanno sempre bisogno del gonfiore e dell’ enfasi”. Il 12 marzo: “Si domandi alle persone che cosa sono, rispondono che cosa furono”. Il 10 aprile: in Italia “un uomo che scrive una lettera apre il dizionario, e una parola non  mai abbastanza pomposa per lui né abbastanza forte. L’ingenuità, la semplicità, le sfumature del naturale sono cose sconosciute in italiano”. E ancora: “Non si può essere brevi in italiano, difetto irrimediabile”.


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