Brecht – Hannah Arendt lo legge all’insegna
di una “ipocrisia inversa” (inverted
hypocrisy), di lui come di W.A.Auden del quale sta scrivendo (“Remembering
W.H.Auden”): di finti arrabbiati, di cattivi buoni e buonissimi. Che consiste,
nel caso di Auden, “nell’indossare la maschera dello snob”, mentre in Germania
si esprimeva “in una diffusa pretesa di malvagità”. A Berlino – dove Auden
passò una stagione felice prima di Hitler. “A Berlino”, nota H.Arendt, “si
scherzava su questa ipocrisia inversa di moda”. Era un modo “di nascondere un’inclinazione irresistibile
a essere buoni e fare il bene, qualcosa che entrambi si vergognavano di ammettere,
meno che meno di proclamare”.
Di Auden Arendt trova che ha preso molto
da Brecht, negli anni di Berlino e dopo (lo ha anche tradotto). Ma, di più, ha
preso l’abito del mascheramento, della “ipocrisia inversa”. La bontà, continua
Arendt, “plausibile per Auden poiché alla fine è diventato un cristiano”, può
scioccare per Brecht, “ma un’attenta lettura dei suoi drammi e le poesie mi
sembra invece che lo provino”. Con drammi quali “Il buon uomo di Sechuan” e “Santa
Giovanna dei Macelli”, e i versi centrali dell’“Opera da tre penny”, là dove l’invito
è ribadito alla bontà. “Ciò che ha condotto questi poeti profondamente
apolitici nella scena politica caotica del nostro secolo è stato lo «zèle compatissant» di Robespierre, la
spinta potente verso «les malheureux»,
distinta da ogni bisogno di azione per la felicità pubblica, o una desiderio di cambiare il mondo”.
Cronache italiane – Sono state una fonte
preziosa per molti scrittori stranieri, su tutti Stendhal, ma non per gli
italiani. Con l’eccezione del Ripamonti per Manzoni.
Stendhal lasciò alla morte
quattordici volumi di manoscritti italiani, racconti violenti di avventure vere,
gran parte dei quali aveva fato ricopiare mentre era console a
Civitavecchia. Che Mérimée fece comprare
dalla Bibliothèque Nationale. Da cui li ha ripresi il biografo Victor Del
Litto, riproducendoli nel vol. XIX delle “Opere complete”.
Dante – È anche personaggio cinematografico.
Lui in persona e non i suoi personaggi. In un film del 2014, “Il mistero di
Dante”, di Louis Nero (Luigi Biancone). Interpretato da F. Murray Abrahams, con
altri noti attori, e con Franco Zeffirelli. Un film di interviste ad artisti e
critici, interpolato con sceneggiati delle opere e la vita di Dante.
Dante è impersonato dal regista. Abrahams,
il personaggio principale, che lega le varie scene, il regista disse ispirato
alla figura di René Guénon, l’esoterista francese del primo Novecento, autore
nel 1928 di “L’esoterismo di Dante”, e a quella di Ibn Arabi, il mistico arabo
del primo Duecento. Molto nel film si fa il caso di una Dante “fedele d’amore”,
della omonima setta, o dei Rosacroce, altro gruppo esoterico.
Don Giovanni – Una epitome importante, se
non propriamente la creazione del Don
Giovanni moderno, del “dongiovannismo”, ne fa Stendhal in una delle “Cronache
italiane” introducendo il racconto “I Cenci”, in cui s’inventa di sana pianta il
personaggio del padre. Ne fa una sorta di archetipo del dongiovannismo, il
piacere satanico della trasgressione. Mentre la cronaca dell’epoca su cui
Stendhal ha lavorato, e che ha conservata, lo dice un debosciato, e un debole
benché violento, e piuttosto ottuso.
Il racconto “I Cenci” si apre con una
lunga digressione sul personaggio. “Il don Giovanni di Molière è galante, senza
dubbio, ma anzitutto è un uomo di buona compagnia”. Quello di Mozart “è già più
vicino alla natura, e meno francese, pensa meno all’opinione degli altri”. C’è anche, c’era, un dongiovanni
ateniese… In Italia ne trova solo due ritratti, “uno dei quali non posso
assolutamente fare conoscere”, essendo l’epoca, gli anni 1830, “ipocrita” e “noiosa”.
L’altro è Francesco Cenci.
Uno Stendhal perfido. Presentando Cenci,
si chiede: “Perché in Francia i don Giovanni sono rari?” E si risponde: “Da noi
le donne non sono più alla moda”.
Italiano – Risale a Stendhal, al
racconto “La duchessa di Paliano”, l’osservazione che l’Italia è un paese
dialettale: “In tutta questa bella Italia in cui l’amore ha seminato tanti
avvenimenti tragici, tre città soltanto, Siena, Firenze e Roma, parlano press’a
poco come scrivono; dappertutto altrove la lingua scritta è a cento leghe dalla
lingua parlata”.
Passione italiana – La “passione” italiana di
cui era appassionato, tema di molte sue apologie entusiaste, Stendhal la
riteneva in realtà spenta. Lo precisa annotando “La duchessa di Castro” sul
manoscritto italiano da cui ha estratto il racconto: “Si parla spesso della
passione italiana, della passione sfrenata che apparve in Italia nel secoli XVI
e XVII e che non è morta che ai giorni nostri, sotto l’imitazione dei costumi
francesi e degli stili di vita alla moda di Parigi”. E in bella copia aprendo
il racconto: “Ai nostri giorni questa bella passione è morta, del tutto morta,
nelle classi che sono state raggiunte dall’imitazione dei costumi francesi e
dei modi di agire alla moda a Parigi o a Londra”.
Scrivere – “Una fondamentale
accuratezza di espressione è il solo e unico
principio morale della scrittura”. Carver teneva questa raccomandazione di Pound
su un cartoncino sei per dodici attaccato al muto accanto alla scrivania. E lo
commenta così: “Non che questo basti, per carità, ma se uno scrittore ha la
fortuna di possedere «una fondamentale accuratezza di espressione», beh, per lo
meno è sulla strada giusta”.
Stendhal – Dominique Fernandez, che si
è prodotto anche lui nel genere delle “cronache italiane”, seppure omoerotiche,
lo fa un represso sessuale nell’edizione delle “Cronache italiane” che ha approntato
nel 1973. O uno pudico. Nell’introduzione e nelle note rimarcando “la timidità
sessuale”. Con un criterio preciso: l’alleggerimento-censura che i suoi
racconti fanno di eccessi di varia natura, dalla sodomia al sadismo, che invece
dettagliano le cronache di cui si è servito per i racconti, buona parte delle
quali sono resoconti di processi. A proposito dei Cenci, della badessa di
Castro, della duchessa di Paliano, di Vittoria Accoramboni, i suoi racconti
sono sempre verecondi in materia di
sesso.
Lo “stile italiano” lo imbarazzava.
Stendhal aveva amato e teorizzava lo stile di vita italiano: l’essere diretti
invece che circonvoluti, l’espressione diretta dei sentimenti invece delle
buone maniere ipocrite che rimproverava allo stile di vita francese, per vanità
o per rispetto umano, la considerazione sociale. Ma non trovava nulla del
genere da leggere in italiano, anzi l’opposto della rapidità, la semplicità, la
sincerità. Una delusione talmente forte che la registra spesso, nei diari, in “Roma,
Napoli, Firenze”. Qui, per es., il 2 marzo 1817: “Per ragioni a me sconosciute,
il naturale semplice non piace nei libri in Italia, hanno sempre bisogno del
gonfiore e dell’ enfasi”. Il 12 marzo: “Si domandi alle persone che cosa sono,
rispondono che cosa furono”. Il 10 aprile: in Italia “un uomo che scrive una
lettera apre il dizionario, e una parola non
mai abbastanza pomposa per lui né abbastanza forte. L’ingenuità, la
semplicità, le sfumature del naturale sono cose sconosciute in italiano”. E
ancora: “Non si può essere brevi in italiano, difetto irrimediabile”.
letterautore@antiit.eu
Nessun commento:
Posta un commento