“L’Oriente guarda se stesso:
non sa nulla del mondo esterno di cui sei cittadino, non ti chiede niente di te
e della tua civiltà”. Valeva allora, 1894, forse meno di quanto valga ora.
Anche perché Oriente e Occidente, anatomizzati, sono concetti storici, poco
congruenti e anche poco consistente. Già in questo primo racconto del (Medio, o
Vicino) Oriente. Racconto ferace, battistrada di Robert Byron, Vita
Sackville-West, Schwarzenbach, Chatwin, Peter Levy – dopo Richard Burton
naturalmente. Ai capitoli sui nomadi, la civiltà maschile, l’anderun, luogo femminile della casa, “di
infelicità, di esistenze insulse”. E i deserti, i qanat, le torri del Silenzio, il fumo al qalyān (narghilé), profumato, i giardini segreti. In un Oriente
“segreto” per modo di dire – l’Oriente di cui più non si può più dire dopo
Edward Said (sottacendo il fatto che Said è un palestinese, cioè un arabo
“occidentale”, anche nella critica dell’etnocentrismo, molto cristianizzato,
dal diritto di famiglia alla logica).
La Persia a cavallo, in
lunghe giornate. Anche in lunghe cavalcate serali “attraverso il secondo
cerchio dell’Inferno e la «bufera infernal, che mai non resta»”. Ci sono già
perfino “le bottiglie vuote e le carte oleate” dei “filistei in gita” lasciate
a insudiciare “la purezza della brughiera purpurea”. E per finire alcuni tocchi su
“Costantinopoli”, su Bursa - “Prusia”, sopra la quale Bell pone l’Olimpo, da cui
vede “gli speroni del meraviglioso monte Ida, e nelle giornate più limpide la
piana di Troia” - e sul mar Nero, mare greco, che rivede meraviglioso con
Strabone, malgrado lo stato di abbandono, e gli infiniti soprusi in navigazione
dei turchi, poveri e ricchi, e le loro famiglie.
È l’opera prima della prima
donna laureata a Oxford. Che è stata in Persia a venti anni e ne scrive e ventisei. La prima funzionaria militare britannica. Per di più
nel settore intelligence, ingaggiata
dal governo nel 1914 per la sua conoscenza del mondo arabo, e subito addetta
all’Arab Bureau al Cairo, insieme con T.E.Lawrence, per fomentare la resistenza
contro l’impero ottomano, alleato in guerra degli imperi centrali. Creatrice nel primo dopoguerra dell’Iraq, in ogni senso, impegnata da assicurare un regno ai sunniti dell’Iraq a scapito degli sciiti, pur avendo fatto la prima conoscenza dell’islam tra gli sciiti dell’Iran. Alla dinastia filobritannica hascemita di fatto, cacciata dalla Mecca, dall’Arabia poi
Saudita. Una creazione di cui disegnò i confini, “contribuendo di fatto all’instabilità
politica, ai conflitti e agli spargimenti di sangue” che ne hanno costellato la
storia e “che ancora oggi l’affliggono” (Chiara Veltri) - senza riguardo cioè
agli sciiti, ai curdi, alle tribù, ai confini, problematiche irrisolte dopo un
secolo.
Libro curioso. Di esotismo
scontato lo dice la curatrice Chiara Veltri, ma “opera di una donna
appartenente alla classe dominante di una Potenza imperiale di cui tuttavia
aveva respinto gran parte delle convenzioni sociali e di genere”. Con una ancora
più curiosa, per l’epoca “ambivalenza nei confronti del sistema di valori
dell’Occidente”. A un certo punto qui, suo primo libro, interrogandosi: “Dov’è
il progresso? Dov’è la marcia della civilizzazione? Dov’è l’evoluzione della
razza? Non ci si trova più nel pezzetto di mondo in cui queste leggi
prevalgono: esse non sono eterne, e ancora meno universali”. Una vittoriana
insofferente alle ipocrisie. Ma ostile alle suffragette, in ogni loro
manifestazione.
Veltri, traduttrice e
studiosa di “teoria postcoloniale e gender studies”, ne fa una lettura
politica, riduttiva come è giusto, ma troppo, secondo un criterio
politicamente corretto, che è sbagliato. È un libro “scritto”, il primo libro
scritto e pubblicato da Bell, a ventisei ani, prima della politica e dello
spionaggio. Un racconto, e si legge come tale. Anche fedele, seppure a un
criterio di lettura più sottile che il politicamente corretto: quello della
verità. Teheran è la stessa anche oggi che non è più un villaggio semidesertico
e semivuoto di fanghi seccati e giardini segreti, ma una metropoli brulicante –
scentrata e informe. E l’Iran un paese di cui il deserto e la distanza –
silenzi, isolamento – fanno il carattere: “Immaginate su ogni lato un paesaggio
simile a quello del mondo dei morti che, nudo e deserto, turbina
nell’interspazio stellare: una pianura grigia e monotona su cui si sollevano e
cadono nuvole di polvere, che poi formano possenti colonne e crollano di nuovo
tra le pietre all’ordine di venti caldi e forsennati; piante basse e pungenti,
l’unica forma di vegetazione, prive di
foglie e ricoperte solo di spine; macchie bianche di sale su cui brillano i
raggi del sole; un orlo di sterili montagne all’orizzonte…”. Un mondo muto. Che
si rivela “nei suoi giardini”, inattesi, fascinosi – l’“Oriente” è il Medio o
Vicino Oriente, Nord Africa compreso, da Suez fino a Nuakshott: “Poca acqua, e
il deserto fiorisce”.
Il primo libro moderno
(contemporaneo) sull’Iran. Repertorio di molti successivi anche per la parte
politica, specie l’inconsistenza del potere imperiale. Se non nelle forme di
accettazione rituali – si è devoti allo scià come si lacrima per Husseyn a metà
del mese di Moharram, tra un pasticcino e una chiacchiera.
La notte più
difficile, stesi per terra, in casa di un Hadgi Mohammed sconosciuto, si rivela
al ricordo uno dei tanti “piaceri semplici, così familiari in una terra così
remota! Non nei grandi palazzi, non nelle grandi città avevamo percepito il
legame di umanità che unisce Oriente e Occidente, ma in quel lontano villaggio
sul ciglio della strada, sul pavimento del domestico dello Scià, rivendicando
la nostra fratellanza con i lavoratori di un suolo straniero. Per una notte
anche noi prendemmo parte alle loro vite”.
Gertrude Bell, Ritratti persiani, Elliot, pp. 190 €
18,50
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