La “colpa” del 4 marzo 2018
non è delle “due forze politiche che, sia pure minoritarie”, avevano governato
in precedenza, Monti e il Pd, ma più o meno della storia repubblicana, di tutto
il dopoguerra. La colpa è, non
ironicamente, della Costituzione. Redatta in reazione al fascismo, la
Costituzione “ha posto le premesse perché venissero nutrite aspettative di maggiore
partecipazione, nonché di una democrazia più vasta”. A partire dall’art. 1, per
il quale “la sovranità appartiene al popolo”. Che non è esattamente la
sovranità parlamentare delle democrazie occidentali.
La “democrazia diretta” è “un
mito”, che nasce dalla Costituzione. Mentre l’esercizio politico repubblicano è
subito evoluto verso una politica di mestiere, partitica, correntizia. Asfittica.
L’ex presidente della Corte Costituzionale fa un lungo elenco di perversioni –
di “debolezze”. Che tutte vede confluite nello smantellamento della classe
dirigente, anzi in una “cronica incapacità di creare una classe dirigente”. Incapace
di tutto: di governare la globalizzazione, come già di ridurre il divario
Nord-Sud, o controllare la spesa pubbliac. La “rifondazione dello Stato, per
adeguarlo alla dimensione europea e mondiale, sentita già largamente negli anni
1960, è stata procrastinata e variamente bocciata. I partiti sono stati
dissolti d’autorità, “senza che si consolidassero nuove forze politiche”. Quel
poco di classe dirigente residua è stato colpito con la virulenta polemica contro
la “casta” – che un tempo si sarebbe detta fascista, va aggiunto, ma in Italia
è stata svolta dai migliori media, i più “politicamentre corretti”. L’esito è
un paese inerme e incapace, governato dal “vincolo esterno”..
Il vincolo esterno - la Ue,
la Commissione di Bruxelles, la Bce – Cassese apprezza come “deterrente contro i
peggiori animal spirits che avrebbero
potuto portare l’Italia verso un modelo argentino”. Ma anch’esso è assunto nel
modo peggiore, come un residuo, oppure passivamente – a volte, va aggiunto,
senza sapere nemmeno cosa, vedi il bail-in:
qualcssa su cui allinearsi, magari protestando. Mentre “costituisce ormai il
contesto nel quale si svolgono i poteri pubblici nazionali”. Se non si capisce
questo, non si fa una politica nazionale, checché si pretenda.
Un ragionamento elaborato,
non un pamphlet. In orma di analisi e
non di proposta: “Dialoghi sulla politica che cambia” è il sottotitolo. Già ministro
della Funzione pubblica nel governo Ciampi del 1993-1994, a lungo presidente
del Banco di Sicilia, e giudice costituzionale per un decennio, il giurista
emerito discute tra sé e sé, nella forma del dialogo, di un cambiamento radicale,
forse pericoloso, di certo un’avventura. Con l’avvertenza che ciò avviene non
solo in Italia. E non è casuale: la storia, si sa, non ha cesure, va in
continuo. Anzi, non inaspettato: in certi momento, avverte, “il precipitato di
debolezze antecedenti fa massa: eventi preparati nel passato si ripropongono
insieme e presentano il conto ai tempi nuovi. Non una ricetta ma un riesame.
La storiografia ha tra i filoni prediletti quello delle “cause”, le “cause
di”. Specie, in Italia, del fascismo. Che però si fa dopo, come esercizio
propriamente storico e non politico. Cassese si avventura sulla storia quale
avviene, con una riflessione politica più che storica – di ricostruzione delle
cause e gli effetti del momento politico prevalente. Ma qui, più che il
diritto, conta la crisi del 2007-2008, il
secondo atto della globalizzazione avviata vent’anni prima. Avviata da
un Occidente trionfante, ma di fatto dall’imperialismo delle multinazionali –
un “fatto” che non si può più dire perché finito in un linguaggio violento, ma
non si può cancellarlo, trent’anni ormai di fallimenti, delocalizzazioni e licenziamenti.
L’Italia ne è tramortita come ogni altro in Europa, e l’Occidente tutto.
Sabino Cassese, La svolta, Il Mulino, pp. 340 € 18
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