giovedì 7 marzo 2019

Uno vale uno è la Costituzione


La “colpa” del 4 marzo 2018 non è delle “due forze politiche che, sia pure minoritarie”, avevano governato in precedenza, Monti e il Pd, ma più o meno della storia repubblicana, di tutto il dopoguerra.  La colpa è, non ironicamente, della Costituzione. Redatta in reazione al fascismo, la Costituzione “ha posto le premesse perché venissero nutrite aspettative di maggiore partecipazione, nonché di una democrazia più vasta”. A partire dall’art. 1, per il quale “la sovranità appartiene al popolo”. Che non è esattamente la sovranità parlamentare delle democrazie occidentali.
La “democrazia diretta” è “un mito”, che nasce dalla Costituzione. Mentre l’esercizio politico repubblicano è subito evoluto verso una politica di mestiere, partitica, correntizia. Asfittica. L’ex presidente della Corte Costituzionale fa un lungo elenco di perversioni – di “debolezze”. Che tutte vede confluite nello smantellamento della classe dirigente, anzi in una “cronica incapacità di creare una classe dirigente”. Incapace di tutto: di governare la globalizzazione, come già di ridurre il divario Nord-Sud, o controllare la spesa pubbliac. La “rifondazione dello Stato, per adeguarlo alla dimensione europea e mondiale, sentita già largamente negli anni 1960, è stata procrastinata e variamente bocciata. I partiti sono stati dissolti d’autorità, “senza che si consolidassero nuove forze politiche”. Quel poco di classe dirigente residua è stato colpito con la virulenta polemica contro la “casta” – che un tempo si sarebbe detta fascista, va aggiunto, ma in Italia è stata svolta dai migliori media, i più “politicamentre corretti”. L’esito è un paese inerme e incapace, governato dal “vincolo esterno”..
Il vincolo esterno - la Ue, la Commissione di Bruxelles, la Bce – Cassese apprezza come “deterrente contro i peggiori animal spirits che avrebbero potuto portare l’Italia verso un modelo argentino”. Ma anch’esso è assunto nel modo peggiore, come un residuo, oppure passivamente – a volte, va aggiunto, senza sapere nemmeno cosa, vedi il bail-in: qualcssa su cui allinearsi, magari protestando. Mentre “costituisce ormai il contesto nel quale si svolgono i poteri pubblici nazionali”. Se non si capisce questo, non si fa una politica nazionale, checché si pretenda.  
Un ragionamento elaborato, non un pamphlet. In orma di analisi e non di proposta: “Dialoghi sulla politica che cambia” è il sottotitolo. Già ministro della Funzione pubblica nel governo Ciampi del 1993-1994, a lungo presidente del Banco di Sicilia, e giudice costituzionale per un decennio, il giurista emerito discute tra sé e sé, nella forma del dialogo, di un cambiamento radicale, forse pericoloso, di certo un’avventura. Con l’avvertenza che ciò avviene non solo in Italia. E non è casuale: la storia, si sa, non ha cesure, va in continuo. Anzi, non inaspettato: in certi momento, avverte, “il precipitato di debolezze antecedenti fa massa: eventi preparati nel passato si ripropongono insieme e presentano il conto ai tempi nuovi. Non una ricetta ma un riesame.
La storiografia ha tra i filoni prediletti quello delle “cause”, le “cause di”. Specie, in Italia, del fascismo. Che però si fa dopo, come esercizio propriamente storico e non politico. Cassese si avventura sulla storia quale avviene, con una riflessione politica più che storica – di ricostruzione delle cause e gli effetti del momento politico prevalente. Ma qui, più che il diritto, conta la crisi del 2007-2008, il  secondo atto della globalizzazione avviata vent’anni prima. Avviata da un Occidente trionfante, ma di fatto dall’imperialismo delle multinazionali – un “fatto” che non si può più dire perché finito in un linguaggio violento, ma non si può cancellarlo, trent’anni ormai di fallimenti, delocalizzazioni e licenziamenti. L’Italia ne è tramortita come ogni altro in Europa, e l’Occidente tutto.
Sabino Cassese, La svolta, Il Mulino, pp. 340 € 18

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