La provincia di Napoli, 3,2 milioni di
persone, 1,1 milioni di famiglie, ha presentato 78.803 richieste di reddito di
cittadinanza. La Lombardia, 10 milioni di persone, 4,3 milioni di famiglie,
ne ha presentate 71.310.
È vero che il pil pro capite è in
Lombardia a 37 mila euro, e a Napoli metropolitana la metà, ma il laurismo è
più che un sospetto. Con la differenza che Lauro le scarpe le paga coi suoi
soldi, mentre Di Maio si fa forte delle
casse, vuote, dello Stato.
C’è un business della pay tv piratata. Che siccome si svolge tra Napoli e
Barcellona, Fubini sul “Corriere della sera” addebita alla camorra. Sempre il
crimine organizzato. Ma la camorra è violenza, questa è ingegnosità. Male
indirizzata per mancanza di capitali.
Nord e Sud uniti
nel male
Si ruba molto nelle banche a Nord: la
Danske Bank e la Svedska Bank, in Danimarca e Svezia, hanno riciclato masse enormi
di capitali russi, fuorilegge in patria, o contro le sanzioni occidentali per
l’Ucraina. La banca danese per 230 miliardi di dollari.
Siamo vissuti nel lungo dopoguerra,
settanta e passa anni, col romanticismo del “Kon-Tiki”, della traversata del
Pacificio, dal Perù alla Polinesia, del norvegese Thor Heyerdahl a bordo di uno
zatterone. Ma era una navigazione corsara, per la rapina di “migliaia di reperti”.
Non c’è una divisione della virtù tra Nord
e Sud. La divisione Nord-Sud non è buona e non è produttiva: è cattiva, nel
senso che nasce male, in chiave di superiorità-inferiorità, ed è fra le tante
generalizzazioni – di etnia, nazionalità, mentalità, perfino storiche – una che
non spiega nulla.
Nel terzo settore “deviato”, quello che
la utilizza la carità pubblica a fini di arricchimento, c’è il Nord uguale al Sud
per il business dell’accoglienza – 35 euro al giorno per immigrato non sono gran
cosa, ma evidentemente, sui grandi numeri, rendono: gli ex Cara erano in Sicilia
e Calabria come in Veneto e Lombardia, profittevoli.
Il business più ricco è però settentrionale,
quello degli affidi e le adozioni. Ora in declino dopo un periodo di fulgore
vent’anni fa ma pur sempre attivo. Si “salvano” i minori dalle famiglie
disgregate affidandoli a centri di Protezione. Ai quali i Comuni pagano rette
giornaliere di 100 e anche 150 euro, al giorno. Centri creati e gestiti da ginecologhe
e psicologhe che poi fanno anche da consulenti ai tribunali per l’affido. Tanta
spregiudicatezza ancora al Sud non si vede.
La nostalgia non regge al ritorno
“Quanto
alle radici o ai luoghi dell’infanzia”, conclude Sergio Givone cominciando il
saggio di presentazione a Pavese, “Dialoghi con Leucò”, “solo chi sfugge alla
loro fascinazione dopo esserci tornato può sperare in una sia pur improbabile
salvezza”. Sua? Dei luoghi – ma i luoghi sono irredimibili, hanno vita propria?
Givone lo
dice a proposito di un autore di cui “il vero, unico tema”, sostiene, è
“quello, odisseico, del ritorno sui luoghi che da sempre sono i nostri e nei
quali tuttavia non possiamo sostare dovendo invece lasciarli, allontanarci,
fuggire”.
Il “mito
moderno”, dice ancora il filosofo a proposito dei miti che lo scrittore intende
far rivivere, è “il mito della riscoperta e del ritrovamento delle radici
ancestrali all’interno di una società che va emancipandosi dal passato”. Due
movimenti antitetici.
Calabria
Il Museo Archeologico di Reggio ha
un’interessante mostra sull’oracolo di Dodona, “Dodonaios. L’oracolo
di Zeus e la Magna Grecia”. Sull’oracolo e sui legami che intratteneva con le
comunità della Magna Grecia. Una devozione che potrebbe tra l’altro avere
legami, col culto di Polsi, della Madonna della Montagna al cuore
dell’Aspromonte. Ma il Museo non ha un sito su cui informarsi. Dell’oracolo.
Della durata della mostra. Del catalogo, ce ne sarà uno.
Ha un numero di telefono al quale
risponde la Soprintendenza. Che non può passarvi il Museo perché “hanno problemi con la linea”. Provare per credere.
L’antropologa Patrizia Giancotti ha,
parlando con Alessandro Cannavò (“L’antropologia globale della Calabria”, in
“Buone notizie” del 26 marzo) l’“incompiuto calabrese”, per dire le case interminate
senza tetto. Che più giusto sarebbe dire “incompiuto del mutuo”, e dell’imprevidenza. Prima del mutuo, anni
1950, quando si costruiva a proprie spese, si cominciava e si finiva la casa,
piccola o grande.
Il mutuo è sempre per i più molti soldi.
E i progetti si sono allargati. Finendo col mutuo al primo piano, anche perché intanto il mutuo si comincia a pagare. Un capestro che prende il resto di ogni
vita attiva, fino ai sessanta e anche oltre.
Molto in Alvaro, soprattutto nei racconti, e non soltanto quelli di “Gente in
Aspromonte”. è sulle origini. Ma di una terra innominabile, e anche
irritante. “Sebbene io non ricordi quasi più le passioni
della mia terra, me n’è rimasta una solidarietà carnale”, professa in “Ritratto di
Melusina”. Ma il suo Sud non è più che “turchino e stupito nel sole, vestito di
scuro, calcinato dal vento, coi lunghi sguardi senza stupore della gente
silenziosa, e con le voci gutturali della gente solitaria”. Sono per lui “meridionali”
la sera, il volto, il silenzio. Ci sono santi “piccoli come meridionali”,
l’“aria secca del paese meridionale”, perfino “una sofferenza di razza” in un
ragazzo, per le rughe emergenti tra le narici e la bocca. E un “malessere della
sera meridionale, così tarda a finire”.
“Il
mare Jonio respira pesante, divora e scava la spiaggia, si arrotola come un
tappeto mobile”: Corrado Alvaro era terragno ma il suo mare conosceva bene
(“L’aquila di mare”, uno dei racconti di “L’amata alla finestra”). E in un
certo senso antivedeva: “È un mare ancora vietato, che ha pochi pescatori, dove
pochi approdano, un mare di transito” - per
mercanti di uomini, dalla Turchia alle coste calabresi.
Fu
lasciata esposta alla “congiunta razzia della pirateria turca e barbaresca
senza che la Spagna potesse salvarla da quel flagello” - Ernesto Pontieri, “Nei
tempi grigi della storia d’Italia”. Senza che la Spagna minimamente si occupasse di salvarla ,
per la verità.
Lo
storico però aggiunge: “Fu piuttosto la Calabria a difendere sulla terraferma
l’italiana integrità del dominio spagnolo”.
A
difesa da turchi e barbareschi si costruirono trecento torri di avvistamento e
difesa. Data da quei secoli, lunghi, di razzie la paura, l’insicurezza. Non
l’apatia: l’incertezza.
A
Lepanto un forte contingente di fanti calabresi fu apprezzato dalle cronache.
Ottocento fanti che Sebastiano Venier, il vecchio comandante della flotta
veneziana nella battaglia, dirà “bellissima gente, con molti gentilhuomini
honorati”. Nella battaglia morirono, si calcola, trentamila turchi e cinquemila
cristiani, seicento dei quali erano calabresi.
Un
Marcantonio “Calabrese”, bottigliere del duca di Paliano Giovanni Carafa, si
era incaricato di avvelenare Marcantonio Colonna, di cui Carafa aveva usurpato
titolo e possedimenti, secondo gli atti del processo a carico dello stesso
Carafa per l’assassinio della propria moglie Violante. Scoperto dal cameriere del
Colonna e imprigionato, il Calabrese si era subito pentito, diventando uno dei
testimoni d’accusa contro il suo padrone.
“Calaber..
malus”, diceva Cicerone. Però generoso: spende 300 e passa milioni l’anno per
curarsi fuori regione, invece di farsi un ospedale, un buon ospedale, uno nuovo
ogni anno - trecento milioni dovrebbero bastare.
Ma
trecento è una cifra presunta, giacché l’azienda sanitaria della (ex)
provincia di Reggio non fa il bilancio. Oltre che essere sotto processo per infiltrazioni
mafiose.
Grillo va in Calabria col suol spettacolo
“Insonnia” e si lamenta che ci sono poche domande per il reddito di
cittadinanza: “Questa regione è strana, ha fatto meno domande di tutte per il reddito
di cittadinanza. E allora non rompetemi, perché o lavorate in nero o siete tutti
della ‘ndrangheta”. Applausi, deliri. È la sindrome Grande Fratello, Isola dei
Famosi: basta il nome, la Calabria applaude.
Padovani e trevigiani, leghisti esimi e imperturbati, hanno fatto e fanno buoni affari a Rocca Imperiale e nel resto dell’Alto Jonio, comprando a poco e rivendendo. Senza bisogno nemmeno di lamentare le mafie, talmente gli va liscia. Al gioco semplice del “chi disprezza, compra”. Che è noto a tutti meno che ai calabresi?
Padovani e trevigiani, leghisti esimi e imperturbati, hanno fatto e fanno buoni affari a Rocca Imperiale e nel resto dell’Alto Jonio, comprando a poco e rivendendo. Senza bisogno nemmeno di lamentare le mafie, talmente gli va liscia. Al gioco semplice del “chi disprezza, compra”. Che è noto a tutti meno che ai calabresi?
I calabresi stupidi non sono – non possono, non sembrano. Forse troppo miti.
Malgrado la fama sulfurea che i lombardo-veneti gli cuciono addosso. Ma ora,
oltre che arricchirli, li votano anche.
Esemplare di mitezza, in misura perfino
esasperata-rante, è Vincenzo Mollica. Che, nato per caso in Emilia, era a tre
mesi col padre in Canada, e a pochi anni è tornato in Calabria, a Motticello,
una frazione di Bruzzano Zeffirio, il paese del padre. A Locri gli fu
diagnosticata a sette anni la cecità che ora lo affligge. E a Locri fece il
ginnasio e il liceo.
“La
Calabria è un romanzo”, titolava il “Corriere della sera” il 24 luglio 1975 una
recensione di Claudio Magris a Mario La Cava, al suo docuromanzo “I fatti di
Casignana”. Ma era un complimento?
Boccaccio
in Calabria
Boccaccio in Calabria, forse per sempre,
è stata un’occasione mancata. Nella “Vita di Giovanni Boccaccio”, leggibile
online, Giuseppe Bonghi racconta di una lettera del gennaio 1371 - da Napoli,
dove si era recato “lasciando indignato”, scrive, “la patria Firenze” - di
Boccaccio a Niccolò da Montefalcone, un amico di gioventù, del primo soggiorno
napoletano, che era diventato monaco o abate del monastero Santo Stefano del
Bosco in Calabria, fondato da san Bruno – la Certosa di Serra San Bruno. Una lettera
in cui lamenta di essere stato abbandonato dall’amico perché “povero e i poveri
non hanno amici”.
L’abate lo aveva invitato, vantandogli
“l’amena solitudine dei boschi”, “l’abbondanza
dei libri, i limpidi fonti, la santità del luogo e le cose confortevoli e l’abbondanza
di ogni cosa e la benignità del clima”. Tanto da indurre in Boccaccio “non solo
il desiderio di vedere” i luoghi ma anche una mezza idea di sistemarvisi, “se
la necessità lo avesse richiesto”. Senonché poi l’amico si era eclissato. Siamo
incostanti.
Dieci anni prima, nel 1360, Boccaccio
aveva ospitato a Firenze Leonzio Pilato, un monaco basiliano di Seminara, dalla
barba ispida, l’aspetto non rassicurante, scrive Vittore Branca, ma dotto in
greco. Lo fece nominare lettore di greco allo Studio Fiorentino, dal 1360 al
1362. Lo spinse a tradurre Omero in latino, la prima traduzione di Omero,
procurandogli un costoso codice dell’originale da Padova. Lui stesso prese
lezioni a Leonzio, la prima fu il 18 ottobre 1360, per due anni – dopo due anni
Pilato morirà, nel 1364. Per il suo proprio piacere, per il progetto che veniva
eseguendo delle “Genealogiae deorum gentilium”, delle divinità non cristiane, e
per far guadagnare Leonzio.
Il greco di Leonzio provocò critiche
“abbastanza aspre” in città, dice Branca, perché risultava di nessuna utilità
per il commercio.
Anche Petrarca, cui Boccaccio mandò la
traduzione di Omero, ebbe da ridire. Non conosceva il greco, cioè l’originale,
ma criticò la metrica latina. E anche l’aspetto di Pilato, che pure non aveva
mai visto. A volte non c’è rimedio.
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