martedì 9 aprile 2019

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (392)

Giuseppe Leuzzi

La provincia di Napoli, 3,2 milioni di persone, 1,1 milioni di famiglie, ha presentato 78.803 richieste di reddito di cittadinanza. La Lombardia, 10 milioni di persone, 4,3 milioni di famiglie, ne ha presentate 71.310.
È vero che il pil pro capite è in Lombardia a 37 mila euro, e a Napoli metropolitana la metà, ma il laurismo è più che un sospetto. Con la differenza che Lauro le scarpe le paga coi suoi soldi, mentre  Di Maio si fa forte delle casse, vuote, dello Stato.

C’è un business della pay tv  piratata. Che siccome si svolge tra Napoli e Barcellona, Fubini sul “Corriere della sera” addebita alla camorra. Sempre il crimine organizzato. Ma la camorra è violenza, questa è ingegnosità. Male indirizzata per mancanza di capitali.

Nord e Sud uniti nel male
Si ruba molto nelle banche a Nord: la Danske Bank e la Svedska Bank, in Danimarca e Svezia, hanno riciclato masse enormi di capitali russi, fuorilegge in patria, o contro le sanzioni occidentali per l’Ucraina. La banca danese per 230 miliardi di dollari.
Siamo vissuti nel lungo dopoguerra, settanta e passa anni, col romanticismo del “Kon-Tiki”, della traversata del Pacificio, dal Perù alla Polinesia, del norvegese Thor Heyerdahl a bordo di uno zatterone. Ma era una navigazione corsara, per la rapina di “migliaia di reperti”.  
Non c’è una divisione della virtù tra Nord e Sud. La divisione Nord-Sud non è buona e non è produttiva: è cattiva, nel senso che nasce male, in chiave di superiorità-inferiorità, ed è fra le tante generalizzazioni – di etnia, nazionalità, mentalità, perfino storiche – una che non spiega nulla.
Nel terzo settore “deviato”, quello che la utilizza la carità pubblica a fini di arricchimento, c’è il Nord uguale al Sud per il business dell’accoglienza – 35 euro al giorno per immigrato non sono gran cosa, ma evidentemente, sui grandi numeri, rendono: gli ex Cara erano in Sicilia e Calabria come in Veneto e Lombardia, profittevoli.
Il business più ricco è però settentrionale, quello degli affidi e le adozioni. Ora in declino dopo un periodo di fulgore vent’anni fa ma pur sempre attivo. Si “salvano” i minori dalle famiglie disgregate affidandoli a centri di Protezione. Ai quali i Comuni pagano rette giornaliere di 100 e anche 150 euro, al giorno. Centri creati e gestiti da ginecologhe e psicologhe che poi fanno anche da consulenti ai tribunali per l’affido. Tanta spregiudicatezza ancora al Sud non si vede.

La nostalgia non regge al ritorno
“Quanto alle radici o ai luoghi dell’infanzia”, conclude Sergio Givone cominciando il saggio di presentazione a Pavese, “Dialoghi con Leucò”, “solo chi sfugge alla loro fascinazione dopo esserci tornato può sperare in una sia pur improbabile salvezza”. Sua? Dei luoghi – ma i luoghi sono irredimibili, hanno vita propria?
Givone lo dice a proposito di un autore di cui “il vero, unico tema”, sostiene, è “quello, odisseico, del ritorno sui luoghi che da sempre sono i nostri e nei quali tuttavia non possiamo sostare dovendo invece lasciarli, allontanarci, fuggire”.
Il “mito moderno”, dice ancora il filosofo a proposito dei miti che lo scrittore intende far rivivere, è “il mito della riscoperta e del ritrovamento delle radici ancestrali all’interno di una società che va emancipandosi dal passato”. Due movimenti antitetici.

Calabria
Il Museo Archeologico di Reggio ha un’interessante mostra sull’oracolo di Dodona, “Dodonaios. L’oracolo di Zeus e la Magna Grecia”. Sull’oracolo e sui legami che intratteneva con le comunità della Magna Grecia. Una devozione che potrebbe tra l’altro avere legami, col culto di Polsi, della Madonna della Montagna al cuore dell’Aspromonte. Ma il Museo non ha un sito su cui informarsi. Dell’oracolo. Della durata della mostra. Del catalogo, ce ne sarà uno.
Ha un numero di telefono al quale risponde la Soprintendenza. Che non può passarvi il Museo perché “hanno problemi con la linea”. Provare per credere.

L’antropologa Patrizia Giancotti ha, parlando con Alessandro Cannavò (“L’antropologia globale della Calabria”, in “Buone notizie” del 26 marzo) l’“incompiuto calabrese”, per dire le case interminate senza tetto. Che più giusto sarebbe dire “incompiuto del mutuo”, e  dell’imprevidenza. Prima del mutuo, anni 1950, quando si costruiva a proprie spese, si cominciava e si finiva la casa, piccola o grande.
Il mutuo è sempre per i più molti soldi. E i progetti si sono allargati. Finendo col mutuo al primo piano, anche perché intanto il mutuo si comincia a pagare. Un capestro che prende il resto di ogni vita attiva, fino ai sessanta e anche oltre. 

Molto in Alvaro, soprattutto nei racconti, e non soltanto quelli di “Gente in Aspromonte”. è sulle origini. Ma di una terra innominabile, e anche irritante.  “Sebbene io non ricordi quasi più le passioni della mia terra, me n’è rimasta una solidarietà carnale”, professa in “Ritratto di Melusina”. Ma il suo Sud non è più che “turchino e stupito nel sole, vestito di scuro, calcinato dal vento, coi lunghi sguardi senza stupore della gente silenziosa, e con le voci gutturali della gente solitaria”. Sono per lui “meridionali” la sera, il volto, il silenzio. Ci sono santi “piccoli come meridionali”, l’“aria secca del paese meridionale”, perfino “una sofferenza di razza” in un ragazzo, per le rughe emergenti tra le narici e la bocca. E un “malessere della sera meridionale, così tarda a finire”.

“Il mare Jonio respira pesante, divora e scava la spiaggia, si arrotola come un tappeto mobile”: Corrado Alvaro era terragno ma il suo mare conosceva bene (“L’aquila di mare”, uno dei racconti di “L’amata alla finestra”). E in un certo senso antivedeva: “È un mare ancora vietato, che ha pochi pescatori, dove pochi approdano, un mare di transito” - per  mercanti di uomini, dalla Turchia alle coste calabresi.

Fu lasciata esposta alla “congiunta razzia della pirateria turca e barbaresca senza che la Spagna potesse salvarla da quel flagello” - Ernesto Pontieri, “Nei tempi grigi della storia d’Italia”. Senza che la  Spagna minimamente si occupasse di salvarla , per la verità.
Lo storico però aggiunge: “Fu piuttosto la Calabria a difendere sulla terraferma l’italiana integrità del dominio spagnolo”.

A difesa da turchi e barbareschi si costruirono trecento torri di avvistamento e difesa. Data da quei secoli, lunghi, di razzie la paura, l’insicurezza. Non l’apatia: l’incertezza.

A Lepanto un forte contingente di fanti calabresi fu apprezzato dalle cronache. Ottocento fanti che Sebastiano Venier, il vecchio comandante della flotta veneziana nella battaglia, dirà “bellissima gente, con molti gentilhuomini honorati”. Nella battaglia morirono, si calcola, trentamila turchi e cinquemila cristiani, seicento dei quali erano calabresi.

Un Marcantonio “Calabrese”, bottigliere del duca di Paliano Giovanni Carafa, si era incaricato di avvelenare Marcantonio Colonna, di cui Carafa aveva usurpato titolo e possedimenti, secondo gli atti del processo a carico dello stesso Carafa per l’assassinio della propria moglie Violante. Scoperto dal cameriere del Colonna e imprigionato, il Calabrese si era subito pentito, diventando uno dei testimoni d’accusa contro il suo padrone.

“Calaber.. malus”, diceva Cicerone. Però generoso: spende 300 e passa milioni l’anno per curarsi fuori regione, invece di farsi un ospedale, un buon ospedale, uno nuovo ogni anno - trecento milioni dovrebbero bastare.

Ma trecento è una cifra presunta, giacché l’azienda sanitaria della (ex) provincia di Reggio non fa il bilancio. Oltre che essere sotto processo per infiltrazioni mafiose.

Grillo va in Calabria col suol spettacolo “Insonnia” e si lamenta che ci sono poche domande per il reddito di cittadinanza: “Questa regione è strana, ha fatto meno domande di tutte per il reddito di cittadinanza. E allora non rompetemi, perché o lavorate in nero o siete tutti della ‘ndrangheta”. Applausi, deliri. È la sindrome Grande Fratello, Isola dei Famosi: basta il nome, la Calabria applaude.

Padovani e trevigiani, leghisti esimi e imperturbati, hanno fatto e fanno buoni affari a Rocca Imperiale e nel resto dell’Alto Jonio, comprando a poco e rivendendo. Senza bisogno nemmeno di lamentare le mafie, talmente gli va liscia. Al gioco semplice del “chi disprezza, compra”. Che è noto a tutti meno che ai calabresi?

I calabresi stupidi non sono – non possono, non sembrano. Forse troppo miti. Malgrado la fama sulfurea che i lombardo-veneti gli cuciono addosso. Ma ora, oltre che arricchirli, li votano anche.  

Esemplare di mitezza, in misura perfino esasperata-rante, è Vincenzo Mollica. Che, nato per caso in Emilia, era a tre mesi col padre in Canada, e a pochi anni è tornato in Calabria, a Motticello, una frazione di Bruzzano Zeffirio, il paese del padre. A Locri gli fu diagnosticata a sette anni la cecità che ora lo affligge. E a Locri fece il ginnasio e il liceo.

“La Calabria è un romanzo”, titolava il “Corriere della sera” il 24 luglio 1975 una recensione di Claudio Magris a Mario La Cava, al suo docuromanzo “I fatti di Casignana”. Ma era un complimento?


Boccaccio in Calabria
Boccaccio in Calabria, forse per sempre, è stata un’occasione mancata. Nella “Vita di Giovanni Boccaccio”, leggibile online, Giuseppe Bonghi racconta di una lettera del gennaio 1371 - da Napoli, dove si era recato “lasciando indignato”, scrive, “la patria Firenze” - di Boccaccio a Niccolò da Montefalcone, un amico di gioventù, del primo soggiorno napoletano, che era diventato monaco o abate del monastero Santo Stefano del Bosco in Calabria, fondato da san Bruno – la Certosa di Serra San Bruno. Una lettera in cui lamenta di essere stato abbandonato dall’amico perché “povero e i poveri non hanno amici”.
L’abate lo aveva invitato, vantandogli “l’amena solitudine dei boschi”, “l’abbondanza dei libri, i limpidi fonti, la santità del luogo e le cose confortevoli e l’abbondanza di ogni cosa e la benignità del clima”. Tanto da indurre in Boccaccio “non solo il desiderio di vedere” i luoghi ma anche una mezza idea di sistemarvisi, “se la necessità lo avesse richiesto”. Senonché poi l’amico si era eclissato. Siamo incostanti.

Dieci anni prima, nel 1360, Boccaccio aveva ospitato a Firenze Leonzio Pilato, un monaco basiliano di Seminara, dalla barba ispida, l’aspetto non rassicurante, scrive Vittore Branca, ma dotto in greco. Lo fece nominare lettore di greco allo Studio Fiorentino, dal 1360 al 1362. Lo spinse a tradurre Omero in latino, la prima traduzione di Omero, procurandogli un costoso codice dell’originale da Padova. Lui stesso prese lezioni a Leonzio, la prima fu il 18 ottobre 1360, per due anni – dopo due anni Pilato morirà, nel 1364. Per il suo proprio piacere, per il progetto che veniva eseguendo delle “Genealogiae deorum gentilium”, delle divinità non cristiane, e per far guadagnare Leonzio.

Il greco di Leonzio provocò critiche “abbastanza aspre” in città, dice Branca, perché risultava di nessuna utilità per il commercio.

Anche Petrarca, cui Boccaccio mandò la traduzione di Omero, ebbe da ridire. Non conosceva il greco, cioè l’originale, ma criticò la metrica latina. E anche l’aspetto di Pilato, che pure non aveva mai visto. A volte non c’è rimedio.

leuzzi@antiit.eu

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