Labaki fa tirare alla fine una
morale in tribunale, dove il protagonista, forse dodicenne forse quindicenne,
condannato per aver accoltellato il marito stupratore della sorellina data in
matrimonio, trascina i genitori: vuole fargli causa perché lo hanno messo al
mondo. Ma l’apologo, insistito, è crudo. Con alcuni non detti anche ingiusti.
L’ambiente cristiano – non si vedono barbe né veli. Che però nel mondo arabo
non è alla barbarie che si vede nel film, stupidità, ignoranza. Beirut - il
luogo non è detto ma si sa che è la capitale libanese. In estrema povertà, ma Beirut
non è una città di 2-3 milioni di abitanti sulla quale gravitano altrettanti
rifugiati, siriani, palestinesi e di altrove, la metà della popolazione del
Libano? E non è crudele con gli immigrati, o meno che altri apesi più ricchi e
meno affollati. Il contesto non è necessario? Sì, in un’opera d’arte. In un
apologo. In una denuncia.
Un favolello amaro. L’impressione
che Labaki lascia è della zingara che chiede l’elemosina col lattante in
braccio addormentato tra gli stracci: di una forzatura. Tra pietà e ripulsa. Lavorando
con i bambini è facile, ma è anche giusto?
Nadine Labaki, Cafarnao
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