Difficile estrarre Trump
fuori dal “fenomeno”, da ciò che appare. Dalla kermesse quotidiana con i media. Che è quanto dire con altri moghul quanto lui egotisti, la democrazia
Americana è remota da quella di scuola. Ma è ben il presidente degli Stati
Uniti d’America. E in tale veste ha innovato in pochi mesi le relazioni
internazionali, militari e commerciali. Mostrando la Cina per quello che è, un
paese fortemente mercantilista, governato da un gruppo di potere monocratico, e
con la presidenza Xi espansionista. Dell’Europa facendo emergere la miseria
politica, tra liti e sgambetti vicendevoli, dalla Brexit ai salvataggi bancari,
nell’inanità internazionale più totale, dalla Libia, o dall’immigrazione
africana, alla Nato, agli equilibri militari. Questo è l’aspetto più utile del
riesame di Graziosi: “sfatare qualche luogo comune”, come scrive de Bortoli, “particolarmente
diffuse nell’approccio italiano ma anche europeo alla presidenza Trump”.
Quanto
al fenomeno Trump Graziosi procede in più punti su parallele morotee. Solo la
disintermediazione politica – l’abbattimento delle “macchine” dei partiti –
facendo emergere impregiudicata. Il movimentista Trump dice per esempio bonapartista:
“La leadership di Trump è fondamentalmente bonapartista”. No, il riferimento
non è il bonapartismo, che è il potere militare, cioè gerarchico, ma il
gollismo. In una forma aggiornata, mediatica, mentre il gollismo propriamente
detto era camerale, remoto – sacrale: l’orgoglio, la costante pretesa, e un po’
di fiuto, di essere in sintonia con la maggioranza, seppure inespressa. Con la
maggioranza vera anzi proprio per
questo, per essere tenuta fuori dal mainstream,
dalla minoranza agente, dall’establishment.
Un gollismo però puro o classico, caratterizzato dall’aloofness, e non dal plebiscitarismo, come Graziosi è incline a
mostrare. Dal distacco, di una leadership
più presente e forte per essere remota e solitaria. Trump non fa plebisciti –
non è John Wayne? E quando De Gaulle li fece ne fu bruciato.
Trump
ha vinto le elezioni così. Una sfida che ha mantenuto e anzi stimola da presidente,
facilitato dai vezzi e le sudditanze mediatiche. Si vede dallo strumento, il
tweet, arma del povero, che il più ricco e potente fatica a circuire – essendo solo
un bastone, non un’idea o un programma. La sfida mediatica maschera la natura
vera del potere, che è nelle cose. Lui lo sa, i media apparentemente no, che privilegiano
la polemica, troppo spesso ridotta a gossip.
Mentre il messaggio di Trump è nelle cose – il tweet mattutino è il bastone per
i media: meno immigrati, meno guerre, rapporti commerciali più equi – eh sì, gli
Stati Uniti, potenza dominante, hanno fatto maturare nella globalizzazione, che
hanno imposto alla caduta del blocco sovietico, condizioni commerciali a loro sfavorevoli,
alla Wto, l’organizzazione del commercio mondiale, e di fatto, negli scambi di
tecnologia o know-how, nelle pratiche
commerciali, perfino nelle politiche monetarie.
La
verità delle cose, puro gollismo.
La
“disintermediazione eroicizzante” è anche “la sua più grande palla al piede”,
di Trump? La costituzione americana è stata redatta con l’obiettivo primario di
bilanciare il voto popolare, “potenzialmente foriero di demagogia e, conseguentemente,
di tirannide”. È vero, è costruita sul bilanciamento dei poteri. Ma è vecchia
di quasi due secoli e mezzo. Nei quali si è venuta ricoprendo da assetti istituzionali
e da un apparato di opinione pubblica, o mediatico, pregiudizialmente condizionanti.
È questa patina che Trump scuote, e che fa il suo successo: come quello della
favola che dice quello che tutti vedono ma non dicono, che il re è nudo. Che
protesta contro l’arroganza: non è vero che Trump è “uno dei rappresentanti più
potenti di quell’establishment che sostiene di voler combattere” – semmai è un tycoon, un parvenu, tre quarti della polemica antitrumpiana, soprattutto a New
York, la capitale degli affari, è di questo tipo, contro l’arricchito.
Un
terzo punto interessante è che la campagna elettorale di Trump, come quella del
socialista Sanders contro Hillary Clinton, è stata anti-sistema e ostile al
professionismo politico. Ma, bisogna aggiungere, questo soprattutto per il
professionismo dei consulenti. Trump deve l’elezione a Steve Bannon, l’uomo-immagine,
che lo ha instradato sul populismo alla Sanders e ha individuato il nodo
elettorale nei quattro Stati “incerti” o cerniera, e all’uomo-organizzazione Paul Manafort – ora carcerato
per affari illeciti in Ucraina, con quegli stessi che la Ue onora alfieri della democrazia. Un fatto che in Italia
semplicemente non si considera, quando non si liquida nella polemica
anti-Bannon – oggetto peraltro misterioso, se si fa l’eccezione di una comparsa
notturna su un programma Rai per élites.
Detto
del gollismo e della costituzione modificata di fatto, nell’età del populismo, resterebbe
da esplorare, forse con più succo, la figura dell’Outsider. Ma c’è già tanto di Trump in questa “Apocalypse Trump”.
Stefano Graziosi, Apocalypse Trump, Ares, pp. 200 € 15
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