domenica 7 aprile 2019

C’è molto (da dire) dietro Trump

È sopravvissuto, sotto una tempesta mediatica senza precedenti, e si comincia a valutarne  novità e consistenza. C’è perfino chi lo vuole un eroe classico, proprio per essere maledetto dalla comunità mediatica – c’è veramente: Victor Davis Hanson, storico militare e classicista, “The case for Trump”.  Graziosi, con l’ausilio di Ferruccio de Bortoli prefatore, lo fa John Wayne, il mito popolare americano dell’uomo solo contro tutti. Con juicio: lo mette a metà tra il rivoluzionario e il controrivoluzionario – “Un presidente tra Mao e Andreotti” è il sottotitolo: un movimentista, ma realista. L’Apocalypse del titolo è quella americana, di Francis Ford Coppola, molta foga e molto rumore, non la devastazione di san Giovanni, ma anche quella nel caso di Trump non senza effetti.
Difficile estrarre Trump fuori dal “fenomeno”, da ciò che appare. Dalla kermesse quotidiana con i media. Che è quanto dire con altri moghul quanto lui egotisti, la democrazia Americana è remota da quella di scuola. Ma è ben il presidente degli Stati Uniti d’America. E in tale veste ha innovato in pochi mesi le relazioni internazionali, militari e commerciali. Mostrando la Cina per quello che è, un paese fortemente mercantilista, governato da un gruppo di potere monocratico, e con la presidenza Xi espansionista. Dell’Europa facendo emergere la miseria politica, tra liti e sgambetti vicendevoli, dalla Brexit ai salvataggi bancari, nell’inanità internazionale più totale, dalla Libia, o dall’immigrazione africana, alla Nato, agli equilibri militari. Questo è l’aspetto più utile del riesame di Graziosi: “sfatare qualche luogo comune”, come scrive de Bortoli, “particolarmente diffuse nell’approccio italiano ma anche europeo alla presidenza Trump”.
Quanto al fenomeno Trump Graziosi procede in più punti su parallele morotee. Solo la disintermediazione politica – l’abbattimento delle “macchine” dei partiti – facendo emergere impregiudicata. Il movimentista Trump dice per esempio bonapartista: “La leadership di Trump è fondamentalmente bonapartista”. No, il riferimento non è il bonapartismo, che è il potere militare, cioè gerarchico, ma il gollismo. In una forma aggiornata, mediatica, mentre il gollismo propriamente detto era camerale, remoto – sacrale: l’orgoglio, la costante pretesa, e un po’ di fiuto, di essere in sintonia con la maggioranza, seppure inespressa. Con la maggioranza vera anzi proprio per questo, per essere tenuta fuori dal mainstream, dalla minoranza agente, dall’establishment
Un gollismo però puro o classico, caratterizzato dall’aloofness, e non dal plebiscitarismo, come Graziosi è incline a mostrare. Dal distacco, di una leadership più presente e forte per essere remota e solitaria. Trump non fa plebisciti – non è John Wayne? E quando De Gaulle li fece ne fu bruciato.
Trump ha vinto le elezioni così. Una sfida che ha mantenuto e anzi stimola da presidente, facilitato dai vezzi e le sudditanze mediatiche. Si vede dallo strumento, il tweet, arma del povero, che il più ricco e potente fatica a circuire – essendo solo un bastone, non un’idea o un programma. La sfida mediatica maschera la natura vera del potere, che è nelle cose. Lui lo sa, i media apparentemente no, che privilegiano la polemica, troppo spesso ridotta a gossip. Mentre il messaggio di Trump è nelle cose – il tweet mattutino è il bastone per i media: meno immigrati, meno guerre, rapporti commerciali più equi – eh sì, gli Stati Uniti, potenza dominante, hanno fatto maturare nella globalizzazione, che hanno imposto alla caduta del blocco sovietico, condizioni commerciali a loro sfavorevoli, alla Wto, l’organizzazione del commercio mondiale, e di fatto, negli scambi di tecnologia o know-how, nelle pratiche commerciali, perfino nelle politiche monetarie.
La verità delle cose, puro gollismo.
La “disintermediazione eroicizzante” è anche “la sua più grande palla al piede”, di Trump? La costituzione americana è stata redatta con l’obiettivo primario di bilanciare il voto popolare, “potenzialmente foriero di demagogia e, conseguentemente, di tirannide”. È vero, è costruita sul bilanciamento dei poteri. Ma è vecchia di quasi due secoli e mezzo. Nei quali si è venuta ricoprendo da assetti istituzionali e da un apparato di opinione pubblica, o mediatico, pregiudizialmente condizionanti. È questa patina che Trump scuote, e che fa il suo successo: come quello della favola che dice quello che tutti vedono ma non dicono, che il re è nudo. Che protesta contro l’arroganza: non è vero che Trump è “uno dei rappresentanti più potenti di quell’establishment che sostiene di voler combattere” – semmai è un tycoon, un parvenu, tre quarti della polemica antitrumpiana, soprattutto a New York, la capitale degli affari, è di questo tipo, contro l’arricchito.
Un terzo punto interessante è che la campagna elettorale di Trump, come quella del socialista Sanders contro Hillary Clinton, è stata anti-sistema e ostile al professionismo politico. Ma, bisogna aggiungere, questo soprattutto per il professionismo dei consulenti. Trump deve l’elezione a Steve Bannon, l’uomo-immagine, che lo ha instradato sul populismo alla Sanders e ha individuato il nodo elettorale nei quattro Stati “incerti” o cerniera, e all’uomo-organizzazione Paul Manafort – ora carcerato per affari illeciti in Ucraina, con quegli stessi che la Ue onora alfieri della democrazia. Un fatto che in Italia semplicemente non si considera, quando non si liquida nella polemica anti-Bannon – oggetto peraltro misterioso, se si fa l’eccezione di una comparsa notturna su un programma Rai per élites.   
Detto del gollismo e della costituzione modificata di fatto, nell’età del populismo, resterebbe da esplorare, forse con più succo, la figura dell’Outsider. Ma c’è già tanto di Trump in questa “Apocalypse Trump”.  
Stefano Graziosi, Apocalypse Trump, Ares, pp. 200 € 15

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