Apertura trionfale
dell’ottava e ultima serie, in notturna, in contemporanea con la prima
americana, in americano sottotitolato, domenica notte, e poi ieri in prima
serata, sempre con i sottitoli – la versione italiana va in onda il 22. Seguita
da un documentario sulle bellissime location
spagnole, di questa serie e delle precedenti, nel golfo di Biscaglia e in
Estremadura. Un’autocelebrazione a tutti denti, pare che il mondo non
attendesse altro. E pare che questo sia vero, non solo una trovata
promozionale. Ma una serie più buia e stravagante delle altre, se possible. Inattendibile
e inafferrabile, nel plot e nei personaggi. Sì, impossessarsi del regno, ma di
quale regno, sono tutti indistinguibili. Onesto se si vuole, nel titolo originale,
“il gioco dei troni”, ma poi?
Una Star War terrestre, senza
la suspense interplanetaria e gli effetti
speciali. Eccetto qualche dragone volante, che ci azzecca poco. Per di più con pochi cavalli, anche pochi duelli, e molti
dialoghi appiedati, in camera, allusivi, oscuri. Com’è possibile innamorarsene?
È questo il vero mistero del
“game”: come mai? Che un centinaio di milioni di persone non attendessero che questo, 17 e mezzo
accertati nei soli Stati Uniti – con 5 milioni di tweet, i dieci più cliccati
della domenica sera, e 11 milioni di contatti nel fine settimana? Che milioni
di italiani siano stati svegli alle due, le tre di notte per l’anticipo atteso
dell’ottava serie? Bisogna rivedere la sociologia: tutti guerrieri e tutte
regine, sia pure col trucco.
Guerrieri e regine sono sempre
stati i beniamini. Ma senza carattere, e senza attrattiva?
David Nutter, Il trono di spade (The Game of Thrones),
Sky Atlantic
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