giovedì 11 aprile 2019

Il matrimonio s’addice alla plebe

Una volgarizazione, l’originale è in latino, per i pochi che anora lo praticavano a Venezia, dove il trattatello - è un  trattato - fu scritto e pubblicato. In originale “Quaestio lepidissima an uxor sit ducenda”, un “problema frivolo”. Cui ovviamente il monsignore risponde sì, ma di fatto no.
Vecchio tema di oratoria epitalamica, in occasione di nozze, e scherzosa. Passato da Giovenale a San Gerolamo e agli umanisti. Ma con punte polemiche, che Della Casa non risparmia, prendendole da Platone, ma anche da Terenzio, Tibullo, Virgilio, Orazio. Cioè dall’antifemminsmo dei femministi, per quanto anti di maniera.
Un dialogo-monologo, con qualche arrière-pensée probabile, essendo il costume di Firenze già nel Cinquecento alquanto gay.  Si conclude grave con la morale-spiegazione che gli uomini su cui grava il compito del governo debbono lasciare alla plebe il compito di mettere su famiglia, con moglie e figli – la demografia deve correre, Firenze era a corto di gioventù: i Medici ritornati dopo la Repubblica s’ingegnavano a politiche demografiche. Ma fin lì il monsignore del galateo viene svolgendo la topica antifemminile, da Platone eccetera – argutamente lo riconosce.
Quaestio lepidissima, an uxor sìt ducenda, se ammogliarsi o nofu nel Cinquecento esercitazione fortunata, sugli exempla anti­coniugali della Bibbia, specie dei Proverbi, e sulla traccia delle freccette velenose surrettiziamente incuneate dal Petrarca: “La donna, anche se, cosa rara, di costumi mitissimi, per la sua sola presenza è un’ombra nociva”, eccetera. L’antica questione classica diventa per gli umanisti un tema quasi obbligato, per delimitare il loro spazio, della élite, rispetto a quello dei comuni mortali. Con una ten­denza netta, osservava Rinuccini: “Gli umanisti nulla sentono, ma ispezzato il santo matrimonio vivono mattamente”. La donna è classicamente Pandora, vaso di tutti i mali (ma nei boccacceschi travagli Pandora è un uomo, il primo da Prometeo tratto dal fango).


L’opera è stata esumata e tradotta in italiano da Enrico Ugo Paoli nel 1944, a Firenze appena liberata - la guerra non interrompeva gli studi umanistici, che oggi si abbandonano dunque per qualcosa di più osucro o grave della guerra. È stata scritta da Della Casa a Venezia, nunzio di Paolo III Farnese dal 1544 fino al 1551: fiorentino ma in carriera con i Farnese, era stato nominato da Paolo III arcivescovo di Benevento e nunzio apostolico a Venezia. Dove fece un figio, si illustrò nella vita mondana, nel palazzetto di servizio sul Canal Grande, introdusse il tribunale dell’Inquisizione, istruì i primi processi contro i Riformati, e compilò un Indice dei libri proibiti. Il garbo può essere inflessibile.
Giovanni Della Casa, Se s’abbia da prender moglie

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