Edipo: “Non saprai mai se ciò
che hai fatto l’hai voluto”.
Mendicante: “Anche il tuo
desiderio di scampare al destino, è destino esso stesso”.
Edipo: “Fin che si cerca, amico,
allora sì. Tu hai avuto la fortuna di non giungere mai”.
Mendicante: “Abbiamo tutti
una montagna dell’infanzia. E per lontano che si vagabondi, ci si ritrova sul
suo sentiero”.
Edipo: “Altro è parlare, altro
sofrire, amico. Ma certo parlando qualcosa si placa nel cuore”.
Questa è solo una pagina,
meno, di centosettanta, altrettanto sentenziose e dense.
Leucò è Leucotea, la “dea bianca”,
in antico identificata con Ino, dea marina – bianca come la spuma sul mare? Con
lei Pavese, variamente impersonificato nei ventisette brevi dialoghi,
variamente discute del più e del meno, della storia e dell’esistenza cui è
inutile dare un senso. Non una filosofia, non c’è
un filo logico. Se non dell’inquietudine, la testimonianza di uno stato d’animo.
L’esito dell’inquietudine dello scrittore, che la politica ha ridotto a uomo
semplice, a causa del confino che Mussolini gli ha inflitto, ma che era incerto
su tutto, la politica compresa, e angustiato - tormentato, si suole dire. Con
la sola eccezione forse della parentesi romana. Dove questi “dialoghi” sono
germogliati, e in gran parte sono stati scritti. Pavese li comincia a dicembre
del 1945. A febbraio 1946 i diari registrano un indice tematico quasi definitivo.
Il 22 febbraio c’è già la nota editoriale, che uscirà come presentazione e come
risvolto di copertina.
Per questo – l’angustia - un
“capriccio serissimo”, come lo dice Givone nella presentazione. Seppure
rilassato, ironico – Saffo è “lesbica di Lesbo”, la “dea vergine” Artemide ha “carattere
non dolce”. Un capriccio non di un
creatore di miti – Pavese, appassionato di antropologia, sapeva che i miti non
si creano. Ma di uno incline a sentirsi sottoposto a, o vittima di, eventi
“necessari”, tanto quanto inspiegati, anche indistinti. Se non per la poesia,
la cui cifra gli resta peraltro “misteriosa e crudele”. Di un pessimismo – nichilismo
– leopardiano, totale, radioso di oscurità. L’ebrietà del creatore di miti è il massacro,
la possibilità di menare fendenti, distruggere. Compreso il suicidio: “Nessuno
si uccide”, fa dire a uno dei suoi personaggi, Sarpedonte, “la morte è un
destino”.
Curiosi dialoghi, senza capo
né coda in realtà, che tuttavia si fanno leggere. I capitoli brevi, alla
maniera di Leopardi, delle “Operette”, e il dialogato, non di maniera, aiutano.
Pubblicati nel 1947, quando Pavese aveva già un nome, li fa precedere da una
nota raccontata, sui toni dell’ironia: “Cesare Pavese, che molti si ostinano a
considerare un testardo narratore realista, specializzato in campagne e periferie
Americano-piemontesi, ci scopre in questi «Dialoghi» un nuovo aspetto del suo
temperamento. Non c’è scrittore autentico il quale non abbia i suoi quarti di
luna, il suo capriccio, la musa nascosta che a un tratto lo inducono a farsi eremita”.
Di fatto, Pavese non era
ancora uno scrittore americano-piemontese, se non per “Paesi tuoi”, 1940, o per
“Feria d’agosto”, 1946, e in parte per “Il diavolo sulle colline”, 1948. Pavese non
esce da un ritratto per mettersi in un altro: si lascia andare a quello che è
il suo flusso sotterraneo – a partire dagli stessi racconti, di un’infanzia e
di una campagna “mitiche”. Ora lo punta direttamente, il mito, pur sapendo che
non è una soluzione, che non se ne libererà - sa, nella sintesi di Givone, che
“mito è, nello stesso tempo, qualcosa di
necessario e di impossibile”.
Non era una divagazione, non
era uno scherzo: il ghirigoro segue si dipana per temi “tragici”, sesso, amore,
destino, solitudine, e natura, divinità, avventura, sventura, eccetera. Ma non come
un compito in classe: Pavese si parla a voce forte. Saltabeccando dove lo porta
l’estro, seppure per temi definite – il progetto è di non vere progetto. Non un
tratato, più un’evocazione poetica. Il mito, del resto, è poesia, e Pavvese “nasce”
poeta. Dice attraverso le figure classiche il suo indicibile. “Doppio è il
movimento”, avverte Givone: “Da una parte il mito precipita verso il grado
zero dell’esperienza, fa cenno alle pure forme vuote che la precedono e la
legittimano, indica la via dell’abbandono all’irrazionale. Dall’altra la poesia
dice no all’orrore che i contenuti mitici sprigionano nel momento stesso in cui
li fa suoi rammemorandoli. Ne deriva una tensione conflittuale”. Di cui nulla
incredibilmente (giustamente) aveva capito Moravia – i “Dialoghi” lesse come
dannunzianesimo, attardato. Ma è la tensione pavesiana, della sua scrittura
come della sua vita – la cui fine, seppure accelerata dai ripetuti rifiuti nei
secondi anni 1940 alle sue poposte di matrimonio, di Fernanda Pivano, Bianca
Garufi e Constance Dowling, dopo quello givanile di Tina Pizzardo, era
“predestinata”. Resta tra i miti, sotto i miti, la condizione dell’uomo
precaria se non si dà una ragione – il mito dei miti.
È l’edizione Einaudi
riproposta in edicola. Completa dell’introduzione del filosofo Sergio Givone,
con le note prese dai diari, la cronologia pavesiana, una bibliografia enorme
sui “Dialoghi” e un’antologia estesa della critica.
Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, Corriere della sera,
pp. € 7,90
Nessun commento:
Posta un commento