S’interrogano il partito
Democratico, specie le donne neo-elette alla Camera dei Rappresentanti, in pose
da modelle, e i media nella quasi totalità, sulla convenienza di mandare Trump a
giudizio per “ostruzione alla giustizia” (in Italia “intralcio alla giustizia”,
art. 377 c.p.: “Chiunque offre o promette denaro o altra utilità alla persona
chiamata a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria”, testimoni,
consulenti, esperti…) sulla base del rapporto del Procuratore speciale per il
Russiagate, Mueller. Non sulla possibilità, sulla convenienza. Si interrogano
non sull’evidenza che il rapporto Mueller possa dare di intralcio alla gustizia.
No: s’interrogano se la messa in stato d’accusa di Trump abbia l’effetto di
indebolirlo politicamente oppure, al contrario, di mobilitare i suoi elettori,
se ne ha. Non se ne discute in sede politica, si sa come la politica funziona,
tra i ricatti, ma di pubblica opinione, come un argomento etico, di giustizia
morale.
Perfino peggiore è la
soluzione: la cosa migliore, si dice, si dice liberamente, sarebbe di mettere
Trump sotto accusa in prossimità del voto voto presidenziale di novembre 2010.
Che il presidente degli Stati Uniti abbia commesso un delitto, o non l’abbia
commesso, è cosa secondaria. La giustizia politica è il peggiore dei misfatti
di regime, si definisca questo pure democratico. Ma in America si reputa
normale e anche doverosa – è il “cioccolatte” Perugina del cav. grand’uff. duce
Mussolini, che era buono e faceva bene.
Chiede il “New Yorker”, rivista
culturale di gran nome, se gli influencer, “da Shakespeare a Instagram”, non ci
abbiano “per secoli costretti ad ammettere una scomoda verità. Non siamo
interamente auto-determinati né autocentrati”. Bella scoperta – qualcuno al
“New Yorker” pensava di esserlo?
E Instagram come Shakespeare?
Nessun commento:
Posta un commento