Il Sud
onora le Madonne – più qualche santo sparso, una curiosità locale, in genere mariologo.
Perché è della terra, coltivatore, pastore, prima che operaio e urbano. Sarà
questa la chiave della bizzarra comunione con l’Africa. Con l’Africa a sud del
Sahara. Comunione di linguaggi: ci si capisce, pur non parlando le stesse
lingue. Perché l’Africa è terricola - agricola, e materna.
Il dottor Kaarbat, olandese, ha almeno
409 figlie, e probabilmente un paio di centinaia di figli, nati dal suo proprio
seme nella sua clinica per la fecondazione assistita. Semplice, un business come gli altri, ma si prendeva
lui tutti i soldi. Creava delle false cartelle di falsi donatori, perché la
legge vuole che restino identificabili, ma che truffa è? E poi succede in
Olanda, mica a Napoli.
Il
Sud nella storia è stato “ridotto tutto”,
lamenta lo storico Giuseppe Lupo sul “Sole 24 Ore”, “alle contese sul
latifondo”, e alle narrazioni “dei vinti e dei gattopardi”. Un selfie col fish-eye.
Il Sud anglo-veneziano
“A
Milano sei innocente finché non sei colpevole, a Roma sei colpevole finché non
sei innocente, in Calabria sei colpevole finché non sei colpevole”, riflette un
detenuto in Michael Dibdin, “Nido di topi”. A Milano non è vero – il romanzo del
giallista anglo-veneziano è del 1988, alla vigilia del diluvio cosiddetto di
Mani Pulite – ma altrove è così.
“Qualcuno dice che i meridionali siano stupidi”,
cosi il commissario veneziano di Dibdin, Aurelio Zen, nello stesso “Nido di
topi” intimorisce nell’interrogatorio il bandito calabrese.
“Come diciamo noi a Napoli”, il questurino napoletano
che gli fa da autista mette in guardia Zen nello stesso thriller, “non credere mai a un calabrese a meno che non dica di
mentire!”.
Complice
di un rapimento a opera di banditi calabresi è, nel romanzo di Dibdin, un ispettore
di polizia, che quando è scoperto si difende “sprezzante”: “Non è stato per
denaro. Siamo dello stesso posto, di paesi vicini. Mi hanno chiesto semplicemente
di aiutarli. Non avrei guadagnato niente per me, solo la riconoscenza di certa
gente, gente di rispetto”. Antropologia sommaria perfetta.
E
ancora, dell’Aspromonte, allora inaccessibile covo di rapiti: “Un territorio
cinquanta volte più grande della repubblica di San Marino e molto più
indipendente di quest’ultima dallo Stato italiano”.
Sudismi\sadismi
Pasolini amava
Ninetto Davoli, di San Pietro a Maida (che Londra immortala in Maida Vale, in
ricordo di una battaglia contro i francesi nel 1807, vinta con i “massisti”
calabresi) e disprezzava la Calabria. Non solo a Cutro, nel famoso coast-to-coast papaleiano dell’Italia,
Ventimiglia-Trieste, in 48 ore. In “Profezia”, la poesia a forma di croce,
della raccolta “Poesia in forma di rosa”, dedicata “a Jean-Paul Sartre, che mi
ha raccontato la storia di Alì dagli Occhi Azzurri” (per questo confluirà anche
nella raccolta successiva sotto questo titolo di soggetti e sceneggiature), era
andato più in là: “Era nel mondo un figlio\ e un giorno andò in Calabria:\ era
estate, ed erano\ vuote le casupole,\ nuove, a pandizucchero,\ da fiabe di fate
color\ delle feci. Vuote.\ Come porcili senza porci, nel centro di orti senza
insalata, di campi\ senza terra, di greti senza acqua. Coltivate dalla luna, le
campagne.\ Le spighe cresciute per bocche di scheletri.”
Una terra e un
destino per i quali “l’operaio di Milano” si è battuto inutilmente: “Nella loro
Terra di razze\ diverse, la luna coltiva\ una campagna che tu\ gli hai
procurato inutilmente.\ Nella loro terra di Bestie\ Famigliari la luna\ è
maestra di anime che tu\ hai modernizzato inutilmente…”. Il Calabrese risalirà
la penisola, risalirà l’Europa con gli sbarchi dai “regni della Fame”: “Sbarcheranno a Crotone o a Palmi,\ a milioni, vestiti di
stracci\ asiatici, e di camice americane.\ Subito i Calabresi diranno\ da
malandrini a malandrini: «Ecco i vecchi fratelli,\ coi figli e il pane e
formaggio»!\ Da Crotone o Palmi saliranno\ a Napoli, e da lì a Barcellona,\ a
Salonicco e a Marsiglia,\ nelle Città
della Malavita.\ Anime e angeli, topi e pidocchi,\ col germe della Storia
Antica.”
La
scomparsa della mafia
Palermo senza mafia? Il processo ormai quindicennale
Stato-mafia ha avuto l’effetto di far sparire la mafia: dunque era vero che la
mafia è lo Stato?
Riapre il processo
allo Stato a Palermo, una città in cui, dopo la cattura di Provenzano nel 2006,
la mafia è scomparsa. Se non per vendette di affaristi, che si accusano l’un
l’altro di mafia.Non ci sono più cupole, e nemmeno capi, né mandamenti. Si
favoleggia di un ricercato numero 1, Messina Denaro, che sarà pure un
supermafioso ma può vivere tranquillo a casa, tra Palermo e Trapani, nessuno si
perita di andarlo a prendere.
La cosa purtroppo non è da ridere, e c’è
da vedere il perché.
Si potrebbe chiudere lo Stato mafia subito
con Massimo Bordin, la voce di radio Radicale tanto vituperata e ora, in morte,
santificata, che il processo vedeva come un carrozzone: “Il processo si è
strutturato come una gigantesca matrioska, contenitore di altri processi che a
loro volta ne contengono altri… I protagonisti sono sempre gli stessi, imputati,
pentiti e testimoni, sentiti più volte sui medesimi episodi” (“Panorama”. 30
dicembre 2013). Con testimonianze, va aggiunto, variabili sullo stesso punto in
anni e processi differenti. “Inevitabile effetto della convergenza di più
fattori discorsivi”, secondo il
celebrato penalista palermitano Giovanni Fiandaca: le dinamiche complesse della
memoria e il condizionamento dei media, degli altri processi, degli altri
testimoni. E le tecniche e tattiche del pentitismo all’italiana? Se non altro
del bisogno del pentito di conformarsi al suo inquirente.
Bordin e Fiandaca sono garantisti, quindi
non fanno testo. Ma si è riaperto sabato in appello il quindicennale processo all’insegna
della teatralità. Non sono bastate le scenografie faraoniche del presidente della
corte d’assise Alfredo Montalto, che ha condito le sue severe condanne con una
sentenza biblica di 5.200 pagine. Dopo aver condotto la sua corte come un circo
spettacolare su e giù per l’Italia, per onorare questo o quel Grande Pentito di
Mafia, e perfino al Quirinale. Con codazzo di giornalisti come una starlette, “rivelazioni” facendo
balenare su Berlusconi, su Napolitano, su chiunque. Dopo l’esordio con un
giudice-che-va-veloce all’udienza preliminare, Piergiorgio Morosini. Uno che la
pensa così: “Le trattative oscure tra cosche e pezzi dello Stato non sono una
novità… Trattative si sono svolte a ogni livello della vita sociale, economica
e istituzionale del Paese”. Cosa non si fa per magnificare la mafia. Per
disattenzione? Sarebbe bello.
Il giudice dell’appello, Angelo Pellino,
ha aperto il sipario con una presa in giro dei predecessori, della pretesa di
“fare la storia dal buco della serratura”. Con una lezione di metodologia: “È stato detto che non si può riscrivere la storia del paese guardandolo
dal buco della serratura. Al di là della metafora non felicissima, credo sia
una verità condivisibile, quasi banale, se con questo si vuole significare che
la complessità dei fatti storici non può essere compressa nella gabbia del
paradigma giudiziario nel quale è giusto che si muova”. Bonario ha aggiunto: questo
può accadere. “Può accadere che ci sia un effetto (del genere), che non sia
cercato e voluto e non si sostituisca all'unico scopo del processo penale che,
per il secondo grado, è la verifica dei motivi di appello”. E ha promesso un
giudizio imparziale: “Gli imputati saranno giudicati per ciò che hanno fatto o
non hanno fatto: spero che ci sia un serrato confronto sulle questioni tecnico
giuridiche e sull’accertamento probatorio”. Ma Pellino stesso è famoso per una
sentenza – un’assoluzione per Riina, sì, proprio lui, al processo per
l’assassinio di Mauro De Mauro – di 2.200 pagine.
La giustizia ha riti suoi a Palermo, analizzati da una
letteratura vasta, a partire da Sciascia, ma indistricabili. Si può solo dire quello che si vede. Il
processo matrioska è una serie di processi in realtà. Tutti senza indagini
specifiche, né prima né durante il dibattimento. Prove sono le convinzioni dei
giudici, e le testimonianze di “pentiti” erratici, che dicono una cosa in un
processo e un’altra in un’altra. Non si cerca altro, basta la testimonianza di
questi personaggi che restano indegni benché la legge li protegga. Pronti ad
assecondare l’accusa contro lo Stato, ma sempre da furbi, parlando cioè per “sentito dire” – non si sa mai che gli inquirenti
cambino, che qualcuno degli accusati faccia carriera, che la copertura
venga scoperta.
Nel frattempo i giudici che hanno
promosso il processo si sono sistemati. Ingroia, il creatore del pool Stato-mafia e suo primo coordinatore,
si è candidato alla presidenza del consiglio nel 2013 e ha lasciato la
magistratura. Di Matteo, Del Bene e Tartaglia si sono sistemati a Roma, al
cuore della capitale. Di Matteo e Del Bene alla Direazione nazionale antimafia,
dove non c’è nulla da fare, nel bellissimo palazzo di via Giulia. Tartaglia alla
Commissione parlamentare antimafia in qualità di consulente. Teresi, che è
succeduto a Ingroia quale coordinatore, è rimasto a Palermo, in attesa del
passaggio a capo della Procura.
Dei giudici, ancorché della Procura, non si può parlare male,
perché hanno avuto troppe vittime di mafia. Lo dicono loro e hanno ragione: le
vittime sono troppe. Le vittime di mafia sono sempre troppe. Anche tra i giornalisti,
e tra i politici – sì, ci sono politici assassinati dalla mafia. Proprio per
questo sarebbe necessaria una vigilanza continua, e armata. Invece di disarmare
i corpi dello Stato che devono effettuarla.
Palermo ha suoi riti speciali specie a palazzo di Giustizia.
All’insegna del “tragediatore”, il tipo che Sciascia ha reso famoso. Lo
Stato-mafia si è riaperto sabato con la desistenza di Ciancimino jr., il teste
che più aveva allietato le sedute di Montalto. Col “papello”, un documento falso
per tutti, eccetto che per giudici
palermitani. Quando poi l’attendibilità di Ciancimino figlio non si è potuta più
sostenere, lo stesso è diventato imputato, di mafia, falsa testimonianza
eccetera. Ora può defilarsi dal processo, dove ha fatto condannare i
Carabinieri, perché non se la sente. Senza il supertestimone magari i Carabinieri
in appello saranno assolti. Ma intanto sono stati sbugiardati. E, direbbe un mafioso,
messi in guardia.
Tragediaturi è, nel
Camillerindex online, due cose: “Dalle parti
nostre, quello che, in ogni occasione che gli càpita, seria o allegra che sia,
si mette a fare teatro, adopera
cioè toni e atteggiamenti più o meno marcati rispetto al livello del fatto in
cui si trova ad essere personaggio. La traduzione
letterale sarebbe questa, ma già nel suo «Kermesse» Sciascia opera
una sottile distinzione tra due «tragediaturi», quello dell’area palermitana e
quello della più ristretta area racalmutese. Dalle mie parti, a una manciata di
chilometri dal paese di Sciascia, «tragediaturi» significa tutt’altra cosa: è
propriamente chi organizza beffe e burle, spesso pesanti, a rischio di
ritorsioni ancora più grevi” (Per Sciascia invece): “Tragidiaturi,
Tragediatore. Che rende il vivere continua tragedia, a sé e agli altri. Ma
altrove in Sicilia, e a Palermo specialmente, «tragidiaturi» è chi tiene i familiari in triboli, in
angoscia; chi li assilla, li ricatta, li minaccia; chi a minime inosservanze,
distrazioni o sprechi reagisce con lunghe prediche o mute violenze. A
Racalmuto, invece, il «tragidiaturi» è una specie di «ingegnoso nemico di se
stesso»: uno che si arrovella, che si rode di preoccupazione e di apprensione
per ogni cosa che i familiari fanno o non fanno, di tutto malcontento – ed
anche delle cose buone e belle, di cui diffida e mugugna aspettandosene il
rovesciamento, l’inevitabile avvento del contrario. Ragionatore, sofista, ma
sempre della scienza del peggio. S’appartiene al pirandellismo di natura,
rigoglioso nella zona. Gli amici e i conoscenti tengono in considerazione di
filosofi o di saggi coloro che nel «tragediare» danno nel sublime; le mogli, le
madri, le figlie (la parola è di prevalente uso femminile) li considerano
semplicemente e soltanto «tragidiatura»: ma più con compatimento e leggera
irrisione che con astio” - L. Sciascia, “Kermesse”, Sellerio, 1982, pp. 60-61.
Oppure è un imbroglione.
Il peggio è considerare gli avventurosi
personaggi dello Stato-mafia di sinistra. Si coprono con Berlusconi – a distanza.
Ma non volevano processare Napolitano? Non vogliono – lo dicono – abbattere lo
Stato? L’antiberlusconismo non faccia velo – c’è ancora l’antiberlusconismo: la
sinistra, quella che parla e scrive non quella che soffre, vive ancora all’era
di Berlusconi. Il complottismo è di destra, ne è il pilastro: l’autoritarismo,
il sospetto, la caccia alle streghe. La carriera dei grandi, e “informati”, complottisti
parla chiaro, da D’Avanzo a Travaglio. Quest’ultimo è stato anche colonna dell’“Unità”
e questo dice tutto sulla confusione. Che giornali liberali come “la
Repubblica” o il “Corriere della sera” si siano dovuti affidare per le cronache
giudiziarie a giornalisti di estrema destra, i soli a conoscere i “segreti” dei
palazzi, può essere stata una necessità, ma dice bene di cosa stiamo in realtà
parlando. E se non è una strategia aggressiva, contro le istituzioni, è
stupidità.
Resta da spiegare la scomparsa della mafia,
a Palermo. Quelli che hanno sgominato i corleonesi, gente da un centinaio di
omicidi eccellenti e stragi, e un migliaio di morti ammazzati, Mori, Subranni
e De Donno, condannati a dodici anni i primi due e a otto il terzo. E la mafia
non più perseguita dacché il processo è stato avviato: quindi anni – ma sono
già venticinque, come vedremo - di impunità. Non si trova Messina Denaro perché
non lo si cerca, Carabinieri e Polizia se ne guardano. Mentre quelli ora a
processo la mafia l’avevano decapitata, arrestandone capi, sottocapi e killer,
senza pagare nulla, senza sconti di pena e nemmeno indulti, anzi con pene aggravate.
È l’uso tra i giudici a Palermo
schierarsi a sinistra, perché l’antimafia è di sinistra. Che non è uno scandalo
in sé, ognuno si colloca politicamente dove vuole, ma per la verità del fatto
sì. Perché si hanno giudici di sinistra che non sono garantisti, non si
attengono ai fatti delle indagini. E perché sono giudici che, oltre ad assaltare
lo Stato, di cui farebbero parte, lasciano la mafia intonsa. È un gioco ai
quattro cantoni che è un imbrogliare le carte. Involontariamente? Non è
possibile, l’astuzia in campo è troppa.
La giustizia ha riti suoi a Palermo che non merita indagare.
Ma viene in maschera. Afflittiva. La più abusata è quella di vecchi arnesi
democristiani e fascisti che si mettono a sinistra, perché l’antimafia è di
sinistra, dai tempi di Leoluca Orlando trent’anni fa, quando andava in giro ad
accusare Falcone. Gente tipo Lo Forte e Scarpinato, di cui Chinnici, capo dei giudici
inquirenti, che sarà vittima di una strage con autobomba, diffidava in quanto
manutengoli della zona grigia.
Il giudice Montalto non avrebbe potuto
giudicare in assise la “trattativa”, poiché l’aveva già sanzionata come giudice
delle indagini preliminari vent’anni prima, e aveva giudicato in errore. Aveva
fatto carcerare Calogero Mannino, il parlamentare e ministro Dc, il 13 febbraio
1995, come pilastro della trattativa, mafioso di complemento. Mannino si fece
nove mesi di Rebibbia, e tredici ai domiciliari, poi fu assolto. Assolto in
primo grado, dopo sei anni, nel 2001, condannato in appello, dal giudice
Salvatore Virga, nel 2004, assolto definitivamente nel 2008 da altra corte d’appello,
cui la Cassazione aveva rinviato il giudizio, avendo cassato la condanna di
Virga, con una pronuncia a sezioni riunite che ha ripulito un po’ dell’arbitrio
con cui il nuovo reato del concorso esterno veniva applicato.
La lotta alla mafia è prerogativa
esclusiva dei giudici? È prerogativa – non un dovere, non un obbligo? No, è
obbligo della Stato, quindi del governo e dell’apparato repressivo, compresi i
giudici. I giudici hanno avuto tanti morti nel contrasto alla mafia? Si,
tantissimi,. Come pure le polizie. E i giornalisti. E molti politici, anche
senza colpa. La “prerogativa” è di giudici malati in testa. Che si vedono
ancora in ermellino, privilegiati come da Mussolini e tuttora casta intoccabile,
nel 2019 – gli sfascisti di Pannella.
Sui giudici incontinenti
Pirandello ha un detto chiaro, in “Taccuino segreto”, nel frammento “A giarra”:
“Mi pari ca parla quantu un judici poviru!”
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