lunedì 20 maggio 2019

Il calcio aziendale

Lacrime finte ancora ieri a Torino attorno alla Juventus, col padrone Agnelli da un lato, l’allenatore Allegri dall’altro, la squadra, sempre furba, di ipocrisia quasi luciferina, e i tifosi, che avevano pagato per poter piangere. Di un calcio cioè che è solo, quando lo è, un business. Piccolo, micragnoso. Almeno nell’accezione torinese - o più probabilmente italiana, confluendo questo tipo di sport nello stato nazionale di derelizione.
Si dice il calcio sempre più aziendale, come lo vuole Agnelli. Ma allora con una differenza. Che in Italia l’aziendalismo si vuole ed è micragnoso, ragionieristico – salvo sforare i bilanci, come lo stesso Agnelli fa, lui di centinaia di milioni. Non sa investire, non sa creare. E distrugge anzi il patrimonio. Non sa creare miti, o sogni, che sono la vera materia dello sport, dell’agonismo.
Altrove questo potenziale è al contrario sostenuto – si chiama marketing, ma allora intelligente. È il caso soprattutto delle squadre britanniche, che hanno un seguito enorme, con ricadute cospicue  sui bilanci, in Asia, fra le grandi masse, ma anche in Africa e perfino in America Latina. Cosa di cui il calcio italiano non si cura. Ha saputo creare dei miti in passato, ma a sua insaputa, e ora nel calcio ragionieristico è solo applicato a distruggerlo.
Il Milan aveva un enorme seguito con i tre olandesi e Sacchi e non ha saputo stabilizzarlo, non se ne è curato. La Juventus, che ha “creato” John Charles, Boniperti, Platini, lo aveva in Del Piero, popolarissimo in Asia, e l’ha cacciato – Del Piero come altri benchmark, Buffon, Pirlo, oggi Allegri.

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