Conversazioni, qual Borges
prediligeva e nelle quali eccelle, inesauribili, variegate. Racconti di
racconti, di aneddoti, personaggi, luoghi e frasi famose. Sempre col gusto
aneddotico, che allevia le digressioni. In cui si parla anche del tango. Ma per
porre problemi più che soluzioni. Ha a che fare col gaucho? Improbabile, più col
compadrito, guappo di città. Mafiosetto
di città, dal coltello facile, per provare la sua superiorità. E sicuramente
coi bordelli. Non è il popolo che inventa il tango, che anzi rifiuta. Poi i
teppistelli lo portarono a Parigi, che lo adottò, e lo impose agli argentini –
lo stesso Gardel era un Charles Gardet, di Tolosa. La parola resta misteriosa:
suona africana, tango, ma non c’erano più negri in città a fine Ottocento.
La Buenos Aires d’antan su cui Borges più volentieri
divaga è per lo più immaginaria, ma consistente. Nel quartiere genovese della Boca
il tango si immalinconisce. Dopo essere stato criollo e rissoso.
Due lunghi poemi coronano le
conferenze, “El tango” e “Milonga de Jacinto Chiclana”. Che Piazolla ha musicato in occasione della pubblicazione delle
conferenze in volume nel nel 2016, per i trentanni della morte di Borges – ma la
musica di Piazzolla Borges non amava, lui era per il tango tradizionale.
Jorge Luis Borges, Il tango, Adelphi, pp. 170 € 14
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