lunedì 6 maggio 2019

Letture - 383

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Biblioteche – Dibdin ne inquadra il (non) funzionamento trent’anni fa, in “Nido di topi”, pp. 263-4 - la biblioteca è la Comunale di Perugia. Per entrare alla biblioteca bisogna essere registrati. La biblioteca è “piena di addetti”,  ma alla sala periodici, al secondo piano, c’è solo una bibliotecaria, che fa la maglia. “Riempia il modulo di richiesta”, risponde senza alzare il capo. Ma non si vedono moduli in giro. Finché “uno degli altri frequentatori” spiega all’intruso che si trovano nel corridoio del piano superiore. “E la collocazione”, chiede la bibliotecaria quando l’intruso ritorna con i moduli. “Non so che collocazione abbiano”. “La guardi”. “Non lo può fare lei?” “Riempire i moduli non è il mio compito. Deve guardare nello schedario”. Lo schedario è nel sottosuolo, spiega il frequentatore benevolo. Ci vogliono venti muniti per localizzare la sezione relativa ai periodici da consultare. I quali hanno collocazione diversa per ogni mese. Quindi vanno riempiti sei moduli diversi. E tornare al terzo piano e ricopiare nome, indirizzo, professione e motivo della richiesta per altre sei volte. Quando al richiesta è pronta, la bibliotecaria bietta: “Non si possono presentare più di tre moduli alla volta”.
Sembra una caricatura, ma è il funzionamento di una biblioteca. Lo è ancora di molte biblioteche -, a parte la calza, che nessuno sa più fare, nemmeno quella.

Generazioni – “Nel Quattrocento, in Italia, si verificò un fenomeno ancora oggi in parte inspiegabile: un’esplosione di genialità. Leonardo il più grande”, Adriano Monti Buzzetti Colella, “FocusStoria”: “Un ruolo chiave ebbe la peste del scolo prima: dimezzò la popolazione, favorendo il rinnovamento generazionale”. E ora, col governo di trentenni in carica?

Giornale – Era altra cosa un secolo fa: “Un giornale è quel pane dello spirito, ancora caldo e umido, della stampa recente e della nebbia del mattino in cui viene distribuito, sin dall’aurora, pane miracoloso, moltiplicabile,  che è insieme uno e diecimila e rimane lo sesso per ciascuno pur penetrando insieme, innumerabile, in tutte le case”, M. Proust, “Alla ricerca del tempo perduto”, ed Einaudi vol IV, p.183. Prosaico, ma ben detto.

Manzoni – Si apprezza, lo apprezzava Gadda per esempio, quale personaggio (conversazioni, corrispondenza, saggi, amici, rapporto con la madre, non rapporto cn le figlie, tiepido patriottismo, bizzarrie, humour, la fissa con l’italiano, paesano-cosmopolita, nobile contadino, mai la via di mezzo dell’italiano medio in fieri, il parlato, lo scritto e il vissuto….) non manzoniano. O allora, nel romanzo, delle sole storie convincenti, “vere”: lo spagnolismo a Milano, la monaca, la colonna infame. Non quello del romanzo, o degli inni, o delle tragedie. È scrittore “distante”, poeta-narratore dell’esterno.

Messina – Nietzsche a Messina, dove arrivò stremato dal mal di mare, sbarcato in barella da un mercantile a vela di cui era il solo passeggero, proveniente da Genova, doveva passarci la vita o almeno un anno, ma resistette solo pochi giorni, tre settimane esatte, dal 30 marzo al 21 aprile 1982. Bastanti per comporre “Gli idilli di Messina”, ma non di più. Se ne allontanò avvilito dallo scirocco – qualche settimana dopo, l’8 maggio, da Locarno scriverà a Rée: “Ancora scirocco intorno a me, il mio grande amico, anche in senso metaforico; ma alla fine penso sempre: senza lo scirocco sarei a Messina”? Ardeva di raggiungere a Roma Lou Salomé, dopo averla sfuggita – “con questo passo ha turbato soprattutto la giovane russa, stupita e addolorata”, gli scrive l’amico Paul Rée a Messina? E perché non per il fallito incontro con Wagner, una possibile riappacificazione “casuale”, nel segno del destino?
Pochi mesi prima della morte, nell’inverno 1881-1882, Wagner aveva risieduto a Palermo, con Cosima e le figlie, mentre componeva il “Parsifal” - una cui prima stesura avrebbe debuttato a Bayreuth in estate. Finito il soggiorno, passò da Messina, negli stessi giorni in cui c’era Nietzsche. Arrivò l’11 aprile, preceduto da un annuncio sulla “Gazzetta di Messina”. Ci passò due notti. Passeggiò per la città, visitando il Duomo. Mentre Cosima e le figlie visitavano il monastero di san Gregorio per il polittico di Antonello – secondo Paul Rée “la seconda figlia (Blandine?) si sarebbe fidanzata con un conte siciliano”.. Che faceva Nietzsche in quei giorni, nell’albergo in piazza Duomo dove era sceso, dove sicuramente ci sarà stata eccitazione per la visita del compositore molto illustre. Non si sa. Ma dieci giorni dopo lasciò la “città del destino”.
Curioso è anche che la guida alla Sicilia del console tedesco a Messina, August Scheneegans, che onorò Wagner al passaggio, faccia posto, luogo per luogo, alle citazioni o altre forme di interesse di autori tedeschi, e per Messina si limiti a citare Goethe (“Nausicaa” nel “Viaggio in Italia”) e Schiller (“La sposa di Messina”), ma non l’autore degli “Idilli”, che pure era stato in città nel suo consolato. Messina non era la città del destino, Nietzsche stesso lo confessa alla partenza. Scrivendo a Gast ai primi di marzo lo spiega: Nausicaa mi attira, “un idillio con le danze e tutto lo splendore meridionale di quelli che vivono al mare”, ma “alla fine del mese vado alla fine del mondo: se lei sapesse dov’è!”.

Plagio - Il fascino della poesia è nell’eco, attesta Petrarca nel “Viaggio in Terrasanta”: “Noi sappiamo molte cose che in nessun luogo abbiamo vedute e ignoriamo molte cose che abbiamo vedute”.
Sommerso a lungo dal concetto giuridico di plagio (il manzonia­no “uno, il quale compera biancheria usata, leva il segno del­l’antico padrone e ci mette il suo”), in coincidenza con l’affer­marsi del copyright (altrettanto materiale che l’economia del­l’usato), e da quello romantico dell’originalità dell’artista, il cri­terio del giovane senese torna nella critica. La scuola etnografi­ca ha fatto emergere i “prestiti immemorabili” di A.N. Veselovskij: “Se in diversi ambiti incontriamo una formula con l’i­dentica, casuale, consequenzialità logica, del tipo v (a-w1, v2) etc., questa somiglianza non può assolutamente essere sostitui­ta da un’analogia dei processi chimici: se di quelle v ce ne saran­no 12, secondo il calcolo di Jacobs (“Folklore”, III, 76), la proba­bilità che si tratti di una struttura autonoma sarà di 1.479.001.599, e noi avremo tutto il diritto di parlare di un prestito”. Claude Lévi-Strauss concorda, confrontato dopo una vita di importanti scoperte da insulse ripetizioni: “Il prestito potrebbe significare che esiste una mitologia universale”. Soc­corre anche la teoria dei cicli: le opinioni, secondo Thomas Browne, “si reincarnano dopo certe rivoluzioni”.
Possibilità infinite apre l’irriverente Sklovski, “Teoria della pro­sa”: “L’opera d’arte viene percepita sullo sfondo e per mezzo dell’associazione mentale con altre opere d’arte. Non soltanto la parodia, ma ogni opera d’arte in genere è costruita in parallelo o in contraddizione a un qualche modello”. Intravvedendo forse questi sviluppi, Daniello Bartoli, specialista doppio, in quanto retore e gesuita, si apprestava a porre il “ladroneccio” nell’Abc dello scrittore: “La prima maniera di rubar con lode è di imitar con giudizio”. Bartoli si confortava con il cavalier Marino, il quale, pur lamentando con il famoso poeta bolognese Claudio Achillini “certe arpiette dall’ugne uncinate”, difende l’uso degli scritti altrui: “Le cose belle son poche e tutti gl’in­telletti acuti corrono dietro alla traccia del meglio, onde non è meraviglia se talora s’abbattono nel medesimo”. Ma Erasmo l’aveva già messo in chiaro: “Noi restauriamo cose antiche, non produciamo cose nuove”, riportando la cultura al restauro, o al­la restaurazione — se non alla ristorazione, commercio di com­mestibili, che tanto deve all’arte del saper dire. Si può anche sostenere che non facciamo che citarci reciprocamente. E per capire ci vuole gusto. Senza contare, diceva Borges, che per ri­fare “Don Chisciotte” bisognerebbe riscriverlo parola per parola. E ancora. Wittgenstein prende una scorciatoia: “Non cito fon­ti perché mi è indifferente se già altri, prima di me, ha pensato ciò che io ho pensato”.

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