“La storia è il
giorno che verrà, ma in Europa è già tramontato, il tempo è fermo. Con tutti i
suoi classici, greci o no, l’europeo è un indigente che cerca di sapere di sé
dagli altri, un mendicante. Gli storici scopriranno che l’Europa ha prosperato
come non mai tagliata in due, puntandosi contro missili e cannoni, e sembrerà
un fatto straordinario. Ora, con la Germania e l’Europa unite, è come a Tokyo,
dove si può girare da soli, ma non si sa dove si va: non ci sono indirizzi,
anche a decrittare la lingua. Se l’Europa sparisse si farebbe un po’ di pulizia
nella storia, certo, e ci sarebbe una novità.
“Si dice che
l’euro ha messo in crisi l’Europa, l’avidità al posto dell’utopia. Non è vero,
è l’Europa che è in crisi, dopo la caduta del Muro e la fine della guerra
fredda, il progetto federativo: la Germania, che ne era l’alfiere e aveva
convinto la Francia, non vi ha più interesse. Nell’opinione pubblica alla
compiacenza è succeduto il ghigno.
“La pregiudiziale
europeista – tutto si decide a Bruxelles – ha comportato un cosmopolitismo
liquidatorio, in una con la moneta unica, l’abolizione del passaporto e la
standardizzazione dei modi di vita, l’alimentazione, l’abbigliamento, la
pedagogia. E una parallela insorgenza delle peculiarità etniche e linguistiche
all’interno delle vecchie patrie, in Italia il leghismo. I due fenomeni sono
stati convogliati in una dottrina del superamento delle nazionalità, fra un
governo europeo e le specifiche comunità.
Ma non è così. Non lo è più dopo la fine della guerra fredda. Ma non lo
è mai stato: era la guerra fredda che sopiva i nazionalismi. Cessata la paura
sono riemersi, anche con crudezza. Era inevitabile e non è una colpa: le
convivenze obbligate dalla storia, e le condivisioni di lingue e linguaggi,
creano simbiosi che sono comunque forti identità. Anche il concetto
identitario si vorrebbe in crisi, ma il fatto è evidente: l’Europa è una
comunità d’interessi nazionali.
Incontestata se serve. Senza ipocrisia. Quindi senza colpa, a patto che la
diversità d’interessi non si trasformi in prevaricazione”.
(G. Leuzzi,
“Gentile Germania”, p. 132-33).
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