Un pellegrinaggio per
l’Europa. Senza spine e senza croci addosso, ma con la stessa timorosa speranza
di chi fa un voto, per l’Europa. Un viaggio nella speranza. Dove meno si
supporrebbe, al chiuso dei conventi: nella continuità, nella durata.
L’attacco è sfavillante, da
antologia, nella “conca fatata di Castelluccio”, una “distesa tibetana”, luogo
“dove paura e incantamento, inferno e paradiso, tellurico e fertile, tenebra e
luce” si sposano per far germogliare e “garantire il ciclo vitale”. Nella
discesa verso Norcia dopo il terremoto e gli altri abitati spettrali. Dove, fra
le macerie, ritrova eretto il principio della rifondazione, san Benedetto,
“capace” nel VI secolo “di rilanciare la civiltà in un mondo in preda alla
paura”. Una volontà piana che si impone sulle macerie e i lutti. Non un
eremitaggio ma uno spazio politico, di “una politica basata su valori forti,
capace di combattere il linguaggio della paura, parlare alle periferie, ridare
speranza agli Ultimi e riscoprire la comunità”. Con un moto finale di orgoglio,
ancora nell’amato tellurico Appennino di tanti suoi nomadismi: “L’Italia è
questo: un arcipelago di spazi dello spirito sfuggiti miracolosamente al
massacro del Globale”.
Un libro appassionato, anche
retorico – la riscoperta del sacro è di “ritorno da Gerusalemme”. Di un Rumiz contro
natura, a volte, apocalittico. Che nel terremoto vede la distruzione di un
mondo già “perduto”, dall’“urbanizzazione
autodistruttiva”, dagli abusi e l’incoscienza, dalla “macchina della xenofobia e
della discordia”. Per un assunto nobile: un viaggio nel comunitarismo cenobita,
e quindi nell’identità. Come una trincea contro il razzismo, l’esclusione,
l’odio. L’identità anti-razzista, dunque. Ma sulla base di una filosofia
discutibile. A ogni pagina l’Europa ritorna come a brandelli, divorata dal
sospetto e dall’albagia. O non dall’incertezza - l’impoverimento è una brutta
bestia, terribile (il licenziamento, il precariato, la carità pubblica, per
quanto benefica)? “La Terra del tramonto non ha mai vinto invadendo terre
altrui. Ha sempre vinto lasciandosi invadere senza paura”. Discutibile anche il
dare e avere, invadere e essere invaso. E la stessa fede nella religione, in un’epoca
di miscredenza discriminante, con condanne e assoluzioni: quanti accordi in
camera con l’islam, di cui in piazza si depreca la violenza e si impone il
rifiuto, per alzare il prezzo?
Con la proposta peraltro,
contro la chiusura, dello “spazio chiuso”. Della stabilitas, del “patto di permanenza (stabilitas in congregatione)”. Della famiglia, anche la sua
propria, della tribù, della patria. Focolari non chiusi e non ostili, certo, ma
l’effetto, non voluto negli enunciati, è curiosamente rovesciato dallo stesso
Rumiz all’inizio del viaggio: i nuclei di resistenza sono comunque torri
eburnee.
L’ambivalenza resta costante.
“I canti di fede più potenti non li ho sentiti in Occidente ma ad Aleppo subito
prima della guerra. Oggi Aleppo e la Siria non esistono più. Noi, prima che con
le bombe, ne abbiamo decretato la fine cancellando per ignoranza il
cristianesimo dalle mappe d’Oriente”. Per
ignoranza no, per impotenza forse, o per tacito accordo, magari anche lucroso,
con le potenze del deserto – abbiamo accettato che fosse cancellato sarebbe più
giusto. “E quando le sue genti in fuga sono venute a bussare alla nostra porta,
le abbiamo respinte come cani”. I cristiani no, gli altri in parte - non si può
essere persecutori e dirsi vittime.
E con qualche inesattezza. De
Gaulle non costruì l’Unione Europea – quello in Francia fu Schumann – che anzi
propriamente sabotò: non voleva gli inglesi, e a ogni incontro proponeva
un’altra Europa. La Georgia non è una terra “dove la cultura tedesca si è
mescolata in modo indissolubile con l’ebraismo e la slavità”: i georgiani sono
simpatici, ma la Georgia è “creazione” di due monaci calabresi.
Negli anni di Francesco, e
della melassa caritatevole, un sasso però rinfrescante nello stagno. Rumiz
riscopre per noi Benedetto, il santo dimenticato della resistenza alla
barbarie, “la mano di chi ha addomesticato la Bestia”, in trincea ma operosa –
“i muretti a secco, le briglie dei torrenti, le palificazoni in legno, il
profumo del formaggio, la bontà del vino…”, l’elenco delle cose fatte è lungo.
“Miracolo? No, è semplicemente che la terra madre è stata amata e consolidata”
- oggi è diverso, è il sottinteso, oggi l’orda siamo noi.
“Una navigazione interiore”,
attraverso il viaggio sul terreno. Ma il viaggio è sorprendente: nel mondo in
rete la proposta del monastero, della cella, della solitudine. Convincente,
accattivante. Del silenzio, la riflessione, i canti in coro, i pasti in
comunità. Non una fuga, un ingresso. Nella stagione della terribile abbazia
televisiva del “Nome della rosa”, di caligini assassine e caratteri
devastanti, un mondo di luce, semplicità
(dirittura), attività, spirituale e materiale. Un invito spiazzante. Una
scommessa, nel suo “errare narrabondo”, che Rumiz risolve con esiti
affascinanti, se non veritieri – veri perché fascinosi. Anche perché non
un’abbazia è uguale all’altra: le individualità sono spiccate, tra i conventi e
tra i religiosi.
Non una proposta politica,
evidentemente, ma un messaggio sì, e uno forte: “La vera terra di missione non
è l’Africa, ma questa Europa che perde la bussola”. Un viaggio di scoperta. Di
un mondo tra noi, nel quotidiano. Come è del migliore Rumiz, uomo di frontiera
“orgogliosamente senza radici”. La scoperta di un mondo che ci ha preceduti e ci
accompagna da secoli, seppure in silenzio. Temeraria come tutte le scoperte. E
tuttavia riconoscibile, una riscoperta. Di un passato malgrado tutto non remoto,
di luoghi e di una cosa – l’operosità – che sono alla porta di casa. Senza gli
esotismi di cui la scoperta si vuole infiocchettata. Avventurosa il giusto: una
teoria e una pratica di trappisti che darebbero da riflettere anche a Agamben,
alla summa “Homo sacer”:“Il sacro è acustica”, i suoni, “la parola che riempie
il vuoto e il silenzio e la penombra”.
Le pagine magistrali non si
contano. Il bisogno di esiliarsi, tra “gommoni e nomadismo low cost”. Il suono
creativo e il silenzio: “I luoghi si capiscono di giorno ma si sentono di
notte. È l’acustica a svelarli. Che sia tuono o sussurro, acustico è l’atto
della creazione…”. Invasato o posseduto, si direbbe, Rumiz riesce convincente anche
con gli ossimori: la musica del silenzio, la stabilità del nomadismo, la
creatività, manuale, materiale, della contemplazione. Il pratico e il semplice
alternando all’ispirato e al sublime. Nella biblioteca di san Gallo, dove
Poggio Bracciolini scovò il “De Achitectura” di Vitruvio tra i tanti reperti di
cui fu cacciatore, “Il manoscritto” oggetto del grande romanzo filologico di
Stephen Greenblatt, Rumiz scopre l’odore
delle pecore. Che è l’odore del suo Appennino, “un odore che più italico
è impossibile”. Dopo avere constatato amaro che “per fare un libro (in
pergamena, n.d.r.) serviva la pelle di cento pecore”, e che “la nostra memoria
dell’antichità è belante e puzzolente”. E l’Appennino sempre, di “pazzesca
energia”. Di cui Benedetto è “il nesso”, tra terremoti e monachesimo attivo,
“figlio di un mondo ctonio”, per “un rapporto inconsapevole, o forse segreto,
fra lui e le Sibille, le antiche abbazie e i templi pagani di quell’immenso
Monte Athos che è l’Appennino”.
Il viaggiatore curioso non trova più nulla di
interessante. Neppure negli angoli che si presupporrebbero più riposti della
natura, come pure gli accadeva pochi anni fa nel suo classico delle montagne, le
valli chiuse delle Alpi, e gli Appennini ignoti ai più. Non massificata è – lo
è ancora? – giusto la fede, il rifiuto del mondo. Un viaggio nel sacro si
direbbe fuori tempo. Per non dire dell’estasi, che neanche ai santi riesce di
materializzare. Però. Rumiz le prova tutte, e al suo modo apparentemente casual ne trasmette i fremiti, anche
“l’efficacia taumaturgica della religioni”.
Paolo Rumiz, Il filo infinito, Feltrinelli, pp. 175
€ 15
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