domenica 5 maggio 2019

L’Europa si riscopre nel sacro

Un pellegrinaggio per l’Europa. Senza spine e senza croci addosso, ma con la stessa timorosa speranza di chi fa un voto, per l’Europa. Un viaggio nella speranza. Dove meno si supporrebbe, al chiuso dei conventi: nella continuità, nella durata.
L’attacco è sfavillante, da antologia, nella “conca fatata di Castelluccio”, una “distesa tibetana”, luogo “dove paura e incantamento, inferno e paradiso, tellurico e fertile, tenebra e luce” si sposano per far germogliare e “garantire il ciclo vitale”. Nella discesa verso Norcia dopo il terremoto e gli altri abitati spettrali. Dove, fra le macerie, ritrova eretto il principio della rifondazione, san Benedetto, “capace” nel VI secolo “di rilanciare la civiltà in un mondo in preda alla paura”. Una volontà piana che si impone sulle macerie e i lutti. Non un eremitaggio ma uno spazio politico, di “una politica basata su valori forti, capace di combattere il linguaggio della paura, parlare alle periferie, ridare speranza agli Ultimi e riscoprire la comunità”. Con un moto finale di orgoglio, ancora nell’amato tellurico Appennino di tanti suoi nomadismi: “L’Italia è questo: un arcipelago di spazi dello spirito sfuggiti miracolosamente al massacro del Globale”.
Un libro appassionato, anche retorico – la riscoperta del sacro è di “ritorno da Gerusalemme”. Di un Rumiz contro natura, a volte, apocalittico. Che nel terremoto vede la distruzione di un mondo già “perduto”,  dall’“urbanizzazione autodistruttiva”, dagli abusi e l’incoscienza, dalla “macchina della xenofobia e della discordia”. Per un assunto nobile: un viaggio nel comunitarismo cenobita, e quindi nell’identità. Come una trincea contro il razzismo, l’esclusione, l’odio. L’identità anti-razzista, dunque. Ma sulla base di una filosofia discutibile. A ogni pagina l’Europa ritorna come a brandelli, divorata dal sospetto e dall’albagia. O non dall’incertezza - l’impoverimento è una brutta bestia, terribile (il licenziamento, il precariato, la carità pubblica, per quanto benefica)? “La Terra del tramonto non ha mai vinto invadendo terre altrui. Ha sempre vinto lasciandosi invadere senza paura”. Discutibile anche il dare e avere, invadere e essere invaso. E la stessa fede nella religione, in un’epoca di miscredenza discriminante, con condanne e assoluzioni: quanti accordi in camera con l’islam, di cui in piazza si depreca la violenza e si impone il rifiuto, per alzare il prezzo?
Con la proposta peraltro, contro la chiusura, dello “spazio chiuso”. Della stabilitas, del “patto di permanenza (stabilitas in congregatione)”. Della famiglia, anche la sua propria, della tribù, della patria. Focolari non chiusi e non ostili, certo, ma l’effetto, non voluto negli enunciati, è curiosamente rovesciato dallo stesso Rumiz all’inizio del viaggio: i nuclei di resistenza sono comunque torri eburnee.
L’ambivalenza resta costante. “I canti di fede più potenti non li ho sentiti in Occidente ma ad Aleppo subito prima della guerra. Oggi Aleppo e la Siria non esistono più. Noi, prima che con le bombe, ne abbiamo decretato la fine cancellando per ignoranza il cristianesimo dalle mappe  d’Oriente”. Per ignoranza no, per impotenza forse, o per tacito accordo, magari anche lucroso, con le potenze del deserto – abbiamo accettato che fosse cancellato sarebbe più giusto. “E quando le sue genti in fuga sono venute a bussare alla nostra porta, le abbiamo respinte come cani”. I cristiani no, gli altri in parte - non si può essere persecutori e dirsi vittime.
E con qualche inesattezza. De Gaulle non costruì l’Unione Europea – quello in Francia fu Schumann – che anzi propriamente sabotò: non voleva gli inglesi, e a ogni incontro proponeva un’altra Europa. La Georgia non è una terra “dove la cultura tedesca si è mescolata in modo indissolubile con l’ebraismo e la slavità”: i georgiani sono simpatici, ma la Georgia è “creazione” di due monaci calabresi.
Negli anni di Francesco, e della melassa caritatevole, un sasso però rinfrescante nello stagno. Rumiz riscopre per noi Benedetto, il santo dimenticato della resistenza alla barbarie, “la mano di chi ha addomesticato la Bestia”, in trincea ma operosa – “i muretti a secco, le briglie dei torrenti, le palificazoni in legno, il profumo del formaggio, la bontà del vino…”, l’elenco delle cose fatte è lungo. “Miracolo? No, è semplicemente che la terra madre è stata amata e consolidata” - oggi è diverso, è il sottinteso, oggi l’orda siamo noi.
“Una navigazione interiore”, attraverso il viaggio sul terreno. Ma il viaggio è sorprendente: nel mondo in rete la proposta del monastero, della cella, della solitudine. Convincente, accattivante. Del silenzio, la riflessione, i canti in coro, i pasti in comunità. Non una fuga, un ingresso. Nella stagione della terribile abbazia televisiva del “Nome della rosa”, di caligini assassine e caratteri devastanti,  un mondo di luce, semplicità (dirittura), attività, spirituale e materiale. Un invito spiazzante. Una scommessa, nel suo “errare narrabondo”, che Rumiz risolve con esiti affascinanti, se non veritieri – veri perché fascinosi. Anche perché non un’abbazia è uguale all’altra: le individualità sono spiccate, tra i conventi e tra i religiosi.
Non una proposta politica, evidentemente, ma un messaggio sì, e uno forte: “La vera terra di missione non è l’Africa, ma questa Europa che perde la bussola”. Un viaggio di scoperta. Di un mondo tra noi, nel quotidiano. Come è del migliore Rumiz, uomo di frontiera “orgogliosamente senza radici”. La scoperta di un mondo che ci ha preceduti e ci accompagna da secoli, seppure in silenzio. Temeraria come tutte le scoperte. E tuttavia riconoscibile, una riscoperta. Di un passato malgrado tutto non remoto, di luoghi e di una cosa – l’operosità – che sono alla porta di casa. Senza gli esotismi di cui la scoperta si vuole infiocchettata. Avventurosa il giusto: una teoria e una pratica di trappisti che darebbero da riflettere anche a Agamben, alla summa “Homo sacer”:“Il sacro è acustica”, i suoni, “la parola che riempie il vuoto e il silenzio e la penombra”.
Le pagine magistrali non si contano. Il bisogno di esiliarsi, tra “gommoni e nomadismo low cost”. Il suono creativo e il silenzio: “I luoghi si capiscono di giorno ma si sentono di notte. È l’acustica a svelarli. Che sia tuono o sussurro, acustico è l’atto della creazione…”. Invasato o posseduto, si direbbe, Rumiz riesce convincente anche con gli ossimori: la musica del silenzio, la stabilità del nomadismo, la creatività, manuale, materiale, della contemplazione. Il pratico e il semplice alternando all’ispirato e al sublime. Nella biblioteca di san Gallo, dove Poggio Bracciolini scovò il “De Achitectura” di Vitruvio tra i tanti reperti di cui fu cacciatore, “Il manoscritto” oggetto del grande romanzo filologico di Stephen Greenblatt, Rumiz scopre l’odore  delle pecore. Che è l’odore del suo Appennino, “un odore che più italico è impossibile”. Dopo avere constatato amaro che “per fare un libro (in pergamena, n.d.r.) serviva la pelle di cento pecore”, e che “la nostra memoria dell’antichità è belante e puzzolente”. E l’Appennino sempre, di “pazzesca energia”. Di cui Benedetto è “il nesso”, tra terremoti e monachesimo attivo, “figlio di un mondo ctonio”, per “un rapporto inconsapevole, o forse segreto, fra lui e le Sibille, le antiche abbazie e i templi pagani di quell’immenso Monte Athos che è l’Appennino”. 
Il viaggiatore curioso non trova più nulla di interessante. Neppure negli angoli che si presupporrebbero più riposti della natura, come pure gli accadeva pochi anni fa nel suo classico delle montagne, le valli chiuse delle Alpi, e gli Appennini ignoti ai più. Non massificata è – lo è ancora? – giusto la fede, il rifiuto del mondo. Un viaggio nel sacro si direbbe fuori tempo. Per non dire dell’estasi, che neanche ai santi riesce di materializzare. Però. Rumiz le prova tutte, e al suo modo apparentemente casual ne trasmette i fremiti, anche “l’efficacia taumaturgica della religioni”. 
Paolo Rumiz, Il filo infinito, Feltrinelli, pp. 175 € 15

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