Quanti sono
gli immigrati, quanti i bamboccioni, quanti i disoccupati, o gli obesi. Peggio
per le cose più remote: la crescita, o decrescita, demografica, le donne in
politica, le connessioni a internet, l’andamento del pil, cioè della ricchezza.
Su qualsiasi cosa le idee sono strampalate. Non c’è fatto o evento che gli
italiani sappiano, o perlomeno percepiscano, nella misura e nel modo giusti. Fin
nella pratica della religioni sono confusi, e naturalmente sulla vita nei campi, che ancora ci sono.
Gli italiani
sono incompetenti e stupidi. Non c’è cosa su cui abbiano una mezza
idea giusta. Credono a qualsiasi cosa, e preferibilmente a quella sbagliata. Superano
perfino gli americani nella credulità. Questa la sintesi di Pagnoncclli nel risvolto: “Un’indagine
condotta in 33 Paesi su un campione di oltre 25 mila individui consente di
misurare le percezioni dei cittadini su aspetti sociali, demografici ed
economici. Le discrepanze tra percezione e realtà consentono di creare un
«indice di ignoranza» che classifica i Paesi in relazione allo scollamento tra
percezione e realtà. E l’Italia questa volta vince, è il primo paese del mondo,
il più credulone di tutti, prima degli Stati Uniti, per credenza nelle cose
sbagliate”.
Non è vero, ma
ammettiamo che sia vero. Manca l’essenziale: il perché, uno qualsiasi. La realtà su misura degli italiani” è il
sottotitolo. E il sarto? Manca il sarto, in questa disamina dell’opinione
pubblica. Meritoria perché il tema da noi è negletto, la nostra scienza
politica è al riguardo cieca o sdegnosa. A differenza che in altri paesi, negli
Stati Uniti a partire da Walter Lippmann un secolo fa, e in Germania da Heidegger, Marcuse, Habermas. Ma poi Pagnoncelli non fa passi avanti, e anzi ne fa
curiosamente a gambero, più di uno.
Opinione pubblica
Si può dire l’opinione
pubblica ciò che l’elettore sa e pensa. È in questo senso che essa è la
cerniera della vita democratica. Ne è il fulcro, ciò che le dà senso e forza. È
per questo che è necessario sapere chi la conforma, come e per quali esiti, su
quali presupposti. La sua formazione è il problema fondamentale dell’opinione
pubblica.
Trascurare la formazione dell’opinione
riporta Pagnoncelli alla stessa soglia dei nostri scienziati politici. I quali
non vi si cimentano per un motivo non segreto: nessuno si vuole “inimicare” i
media. Perché una critica dell’opinione pubblica sarebbe – dovrebbe essere – una
critica dei media, non dei lettori\spettatori, che ne sono le vittime. Gli
italiani non sanno, perché non sanno dove sapere. Anche ammettendo che l’opinione
pubblica sia la “gestione del consenso”, come vuole Pagnoncelli.
La cosa curiosa è che Pagnoncelli,
pure sensibile e simpatico, è contestabile sul suo stesso terreno. Gli italiani
sono volubili, dice. Sono contraddittori – vogliono una cosa e il contrario. E
queste sono facezie sociologiche. Che forse fanno giornalismo, ma non buono. È il
limite dei giornalisti di complemento. Quelli che, come Pagnoncelli, scrivono per
i giornali come specialisti, e quindi si ritengono autorevoli, senza però i vincoli
redazionali che soli fanno il buon giornalismo: l’accuratezza, l’affidabilità,
le fonti sicure. Vive di sondaggi, e non ci dice che la risposta è a metà nella
domanda. Se uno mi domanda: la popolazione carceraria in Italia è di immigrati
al 30, al 50 o al 70 per cento, e io rispondo al 50, sono un cretino (sono al
40)? Ed è uno scandalo che gli immigrati siano detti in Italia uno su quattro mentre
sono uno su dieci, se il sondaggio si fa tra la popolazione urbana, specie quella
che lavora e quindi prende i mezzi pubblici? E perché la discrepanza sarebbe
segno di razzismo, ignoranza, stupidità?
Sindrome leghista
Il mite
Pagnoncelli è severo, incattivito. Succede a Milano, la sociologia vi è molto
soggettiva – la sindrome leghista. Del resto, si capisce chiaro benché non
detto, è col suo compaesano Salvini che ce l’ha. Nell’ambito della faida
ambrosiana, si può rilevare che s’intende l’opinione pubblica un’interazione di
obiettivi e convincimenti con segno positivo, per un di più e non un meno, di
libertà e opportunità. Ma è anche vero che il populismo, che invece marcia in
senso contrario, viene incontro ad aspettative frustrate, non le suscita né le
stimola. Non sono Grillo o Salvini che mettono in discussione l’euro e
l’Europa, sono l’euro e l’Europa che suscitano e alimentano i Grillo e i
Salvini, almeno per questo aspetto. Non è Trump che mette in discussione la
globalizzazione, è la globalizzazione che mette in discussione se stessa,
avendo suscitato per metà del mondo, lo stesso Occidente che l’ha promossa, un
arretramento del livello di vita, e anche del reddito, della stragrande
maggioranza della sua popolazione, un impoverimento generale, con pratiche in
troppi casi non regolari, di protezionismi mascherati e di dumping. Per non dire degli effetti collaterali, sempre della
globalizzazione, che sempre la stragrande maggioranza finisce per pagare,
direttamente o indirettamente: i carissimi raid finanziari, ora anche sulle
banche, le superretribuzioni di tutte le posizioni costituite, manageriali e
istituzionali (in Italia alcune migliaia di posizioni nella Funzione Pubblica),
l’impunità del crimine economico, e quindi la corruzione endemica, sistemica.
Fin qui la
filippica di Pagnoncelli si può dire cosa loro, di Milano. Il più però resta da fare, nel
suo ambito di ricerche.
L’italiano in realtà è molto critico.
Si può anche dire troppo. E più smagato dei suoi concittadini europei, molto di più, troppo. Pagnoncelli è mai
stato, col suo sondaggio a 14, in Germania, in Olanda, in Belgio, nella stessa Francia
sorella? I media vi sono un minimo più informativi. E ci sono ancora partiti
che mediano i media. Ma l’“opinione pubblica” come la intende lui, i mood e i sentiment dell’“uomo della strada”?
Adesso conta la vociferazione?
Sì. Dell’italiano razzista. Mentre non lo è – Pagnoncelli è stato in Germania,
etc., fuori Chiasso? Pur non essendo stato preparato al bisogno di
immigrazione, da una parte (migranti) e dall’altra (Sistema Italia). E pur essendo
agli inizi e per due decenni, quando l’immigrazione ha preso piede in Italia, esposto
alla parte peggiore di questa: prostituzione, femminile e maschile, spaccio e,
nell’accezione migliore, commercio ambulante abusivo, magari di prodotti di
Napoli, oltre ai galeotti balcanici liberati dal comunismo, in Albania, Bosnia,
Serbia e altrove.
L’italiano non sopravvaluta i
bamboccioni – qualche ministro sì, ma non l’“italiano medio”. E emigra
volentieri, anche solo per curiosità o per uscire dalla famiglia – fa una “fuga
di cervelli” quando serve a fare cronaca di (bella) gioventù che prospera a
Manchester o Düsseldorf, o altro paradiso transalpino. Ma è inutile rivedere il
tutto, della vociferazione purtroppo Pagnoncelli è parte.
Nando Pagnoncclli, La penisola
che non c’è, Mondadori, pp. 128, ril. € 17
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