Lisistrata convoca in Atene le
donne di tutte le città coinvolte nella guerra del Peloponneso, comprese le
spartane arcinemiche. E insieme non si mettono a “mostrarla”, ma occupano l’Acropoli,
il posto del potere, e sottraggono il tesoro della Lega attica, cioè il
finanziamento della guerra. Uno sviluppo più ovvio che sorprendente: Aristotele
ha trent’anni e avrà visto molti coetanei finiti in guerra, se lui stesso
non ha rischiato.
Riletto in questa ottica in
effetti è un Aristofane senza lati oscuri, convincente sempre. Si ride, ma per
un motivo non scurrile. È più come fregare i signori della guerra che non gli
uomini, i mariti, i compagni occasionali. Sullo stesso tema una commedia all men li vedrebbe intenti al
sabotaggio, contro un’arma decisiva, magari con un’altra arma decisiva. Qui
invece il rovesciamento è radicale, senza timori né tremori, senza suspense: niente più figli per la guerra.
In effetti, se le donne non
fanno l’amore non fanno più figli, e allora chi fa la guerra? Sempre nel
presupposto che siano gli uomini a fare la
guerra – e i mafiosi, i killer, gli uxoricidi, i pedofili, eccetera. In “Lisistrata”
questo non c’è, Aristofane non è un femminista, né un maschio in disarmo. E
comunque non considera il piacere un fatto maschile, come vuole il neo
beghinismo – non priva le donne del piacere. Ma disinnesca la fabbrica delle
guerre, una provocazione radicale.
Riletto oggi, nel mentre che
lo “sciopero della f…” è materia di attricette del #metoo, la solita
americanata, Aristofane un po’ accascia. Vivere nel 2019, invece che nell’Atene
del V secolo a.C., per quale colpa, che male uno ha fatto? Peggio: il progresso
è una melassa, non è lineare – non è una freccia, non è nemmeno una marcia avanti.
Aristofane, Lisistrata
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