Una mostra documentaria sui
manicomi (Teramo, Mombello, Maggiano – quello diretto da Mario Tobino, numen loci, che molto ne scrisse) e
rappresentativa della follia nelle arti figurative. Con molte opere, soprattutto
toscane (la mostra si vuole itinerante, e in ogni luogo verrà “localizzata”), una
larga presenza di Ligabue e Pietro Ghizzardi, consentita dalla collaborazione
col Centro Studi Antonio Ligabue di Parma, e esemplari di Bacon, Silvestro Lega
(“L’adolescente”, con l’“apribocca”, strumento terapeutico di tortura), Fausto
Pirandello. E un affresco a olio lungo oltre dieci metri di Enrico Robusti,
altro esponente parmigiano dell’arte borderline, caricaturista e illustratore.
Qui e lì sempre menzionando naturalmente Van Gogh.
La follia nell’arte non è
tema nuovo. Che però non si si indaga a fondo, neanche qui - la mostra si
limita a rappresentare. Specialmente carente è l’analisi in poesia, dove la
follia registra casi eccelsi di resa, da Hölderlin a Alda Merini. Come se le parole
venissero dall’inconscio, che la follia libera.
Una mostra che è un impegno.
Invasiva e non catartica. Se non per il lato umanitario della questione – il trattamento
manicomiale sembra perfino inconcepibile. Questa volta Sgarbi non libera ma,
quasi, aggredisce. Se ne fa il percorso con un senso di colpa quasi metafisico,
inconoscibile e ineliminabile. O della miseria della condizione umana.
Ma Sgarbi non è di fatto il curatore
- della mostra sembra qui e lì una sorta di patrono. Il lavoro è di Sara
Pallavicini, Giovanni Lettini e Stefano Morelli.
Vittorio Sgarbi (a cura di), Museo della follia, Lucca, ex Cavallerizza
Nessun commento:
Posta un commento