A sedici Anne moriva a
Bergen-Belsen, deportata con tutta la famiglia dai nazisti. Moriva di
tifo, un mese prima della Liberazione.
Era finita a Bergen-Belsen, un lager per modo di dire, insieme con la sorella
Margot e tremilaseicento altri deportati da Auschwitz – Auschwitz era meglio di
Bergen-Belsen, un campo di fango e di tende, che la pioggia e il vento avevano
strappate.
Nell’ultima nota del diario,
l’1 agosto 1944, prima della deportazione, Anne scrive alla fittizia amica
Kitty di sentirsi doppia. Una, quella nota, saccente e dispersiva: “La prima
alberga la mia allegria sfrenata, le mie continue prese in giro, la gioia di
vivere e soprattutto il fatto di vedere
il lato positivo di tutte le cose”, pronto a “un flirt, un bacio, un
abbraccio, una battuta spinta”. L’altra, “il lato buono”, che “molto più
bello, puro e profondo”, purtroppo non la conosce nessuno. È la sindrome dello
scrittore inedito. Anche se viveva da due anni in cattività, temendo la
deportazione. Reclusa con altre undici persone, di cui tre amici olandesi che
proteggevano i reclusi, andando e venendo, e otto reclusi, tra i quali Anna, la
sorella e i genitori.
“Anne Frank” è un marchio e
un simbolo, di tutto quello che si vorrebbe non fosse avvenuto nel secolo
scorso. Ma il diario mantiene la vivacità per cui è diventato famoso, subito
alla prima pubblicazione, prima anche che un monumento all’Olocausto, e questo
bisogna ricordarlo. Ha un passo variato, nella ripetitività di un giorno uguale
all’altro, pieno di humour, con le illusioni e le delusioni dell’adolescenza,
delle adolescenti, i primi stimoli sessuali, momenti di euforia o di depressione,
una cognizione sempre allerta e esatta delle vicende belliche, misurata sulle
informazioni dei tre angeli custodi esterni ma anche sulle informazioni in
codice della Bbc e della radio olandese in esilio (“Oranje”), e sui bombardamenti, gli allarmi,
la loro intensità, la loro frequenza.
Questo va detto perché è da
qualche tempo di moda sottolineare nella vicenda Frank aspetti problematici e
perfino sordidi. Di creazione e sfruttamento di un mito. Nonché di censura,
nella prima e a lungo unica edizione, di ogni minimo accenno di turbamento
sessuale e ogni riferimento non benevolo alla madre, e alla madre col padre.
Anne aveva problemi con la madre come tutte le adolescenti, e leggendo ora i
riferimenti allora espunti si vede bene. Veniva anche da una famiglia
alto-borghese, sia da parte del padre che della madre, e anche questo può spiegare le difficoltà ad adattarsi al rifugio
minimo e anonimo, in clausura. Mentre “nel 1947”, può spiegare piana la
curatrice Mirjam Pressler, “quando il volume uscì nei Paesi Bassi, non era
costume parlare apertamente di sesso, soprattutto nei libri per ragazzi”.
Non è la storia di Anne Frank,
poiché manca il peggio, l’arresto, la deportazione, il lager. E tuttavia è
stato un potente catalizzatore di passioni, forse il veicolo più potente per un
sentimento reale di cosa l’antisemitismo legale è stato, già prima del
concentramento, molto prima – quante piccole Anne Frank in Italia per le leggi razziali, anche se non sono finite allo sterminio, ma cacciate da scuola sì, all’inizio dell’anno
scolastico 1938-39. In questo indirettamente lo è, un documento anche dell’Olocausto.
Questa “edizione definitiva”,
come recita la copertina, “a cura di Mirjam Pressler, approvata dall’Anne Frank
Fonds”, con un’immagine diversa e serena in copertina, era forse mirata a recuperare
i diritti, ormai in libero uso. Un’edizione aumentata rispetto a quella “edita”
già nota, che Eraldo Affinati presenta, col saggio di Natalia Ginzburg che introduceva
la prima traduzione nel 1954, e con una ricostruzione degli ultimi mesi di vita
di Anne e della sorella maggiore Margot, sulla base di testimonianze di sopravvissuti
a Westerbork, il campo di smistamento olandese, Auschwitz e Bergen-Belsen.
La foto nuova in
copertina dà stranamente un’altra idea di Anne Frank e del suo diario. Dice una
ragazza di tredici-quindici anni che voleva scrivere, e aveva cominciato. Precisa
e svagata. Puntigliosa e appassionata. Giusta e ingiusta. Un diario che è un
romanzo. A un certo punto della presentazione, Affinati ha uno scarto, una
sorta di parentesi illuminante, un personaggio delineando, mitico e mutevole
(polimorfico in realtà): “Anche se rifiutassimo il mito di Anne Frank, dovremmo
comunque sapere che la sua testimonianza, essendo entrata a far parte dell’immaginario
contemporaneo, può orientare certe emozioni collettive, plasmare il pensiero
di innumerevoli persone, proprio come una di quelle divinità mitologiche greco-romane
cui lei, che odiava la matematica, era tanto affezionata”. E: “Questa
adolescente, capace di slanci generosi e pungenti invettive, continua a
cambiare, come se i suoi tanti lettori avessero la capacità di rigenerarla…”
Questa è l’edizione
olandese del 1991, un diario “compilato da Mirjam Pressler” sugli originali
legati dal padre Otto Frank al Reale Istituto dei Paesi Bassi per la
documentazione bellica – oggi Niod, Nederlandisch Institut vor Oorlogs, Holocaust
–en Genocidestudies. Subito tradotta da Einaudi, nel 1993, per la cura di
Frediano Sessi – che è anche il compilatore dell’appendice sugli ultimi mesi di
vita di Anne Frank, nella cattività. Promossa dal gruppo Mondadori per i novant’anni
della nascita a prezzo speciale, “a panino” con un altro bestseller, nelle sue
librerie.
Anne Frank, Diario, Einaudi, pp. 401 € 9,90
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