Un candidato democratico ben
calibrato potrebbe battere l’anno prossimo Trump proprio nello Stato
repubblicano per eccellenza, il Texas. Al voto di metà legislatura sette mesi
fa il senatore repubblicano uscente Ted Cruz ha sconfitto il candidato
democratico Beto O’ Rourke per soli 2 punti e mezzo. In uno Stato dove
tradizionalmente il partito Repubblicano conta su sei voti su dieci – ed è
arrivato anche, con Bush jr nel 2004, a tre su quattro.
La presidenza Trump si è messa
in urto con una serie di interessi texani. I proprietari terrieri, e le aziende
agricole e agropecuarie delle aree di confine in primo luogo, ostili al Muro
che Trump vuole costruire. Che romperebbe gli equilibri ecosistemici, e deprezzerebbe
comunque le aree. Tutto il Texas inoltre ha relazioni privilegiate con il
Messico, suo primo e di gran lunga maggiore partner commerciale.
Il Texas, 29 milioni di
abitanti, è la seconda economia americana dopo la California, 39 milioni di
abitanti. E dispone di 38 voti elettorali alle presidenziali, o Grandi
Elettori, molto meno dei 58 della California, ma decisivi se diventasse uno Stato
oscillante. È anche lo Stato americano che più esporta, 264 miliardi di dollari
nel 2018, contro i 172 della California. Anche verso il Messico. È infatti il
primo staio agroindustriale, e con la componente forse maggiore dei settori
elettronica, automotive (fabbriche
Toyota), e aerospaziale.
Alle primarie del 2016 tutti i
giornali texani erano, benché schierati pro Repubbicani, contro Trump.
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