“La spiaggia di Falesà non
esiste. Quella di Campo di Mare sì”. Ai settanta verso gli ottanta non ci si
può più illudere. E Pecoraro, che di professione e mente è architetto, anzi no,
storico dell’arte, lo spiega in dettaglio sotto forma di progetto, “avendo
tempo libero, di ricostruzione/restituzione, storica e non” del suo quartiere
romano, “lo Stradone” che sale dal Vaticano.
Una “storia geografica”, del
“Quadrante”, detto anche Valle Aurelia o dell’Inferno, su per il monte di
Argilla, nella parte denominata la Sacca, abitata da uomini e donne che “veramente credevano in un mondo
diverso e comunista”, che ha fabbricato
Roma, antica e moderna, per lo più a opera di architetti e artigiani ticinesi,
con le sue fornaci, toponimo ancora resistente anche se il forno Hoffmann & Lich , “tra la fine del Diciannovesimo Secolo e l’inizio del Ventesimo, quando
giù tra le colline di argilla si erano insediate una cinquantina di fornaci”, le
mise fuori gioco. Poi anche Hoffmann è finito abbandonato, il foratino avendo
preso il posto del mattone. Nella “grande macchia d’olio che chiamano la Città
di Dio” – di olio esausto?
Una storia edilizia? Un
(lungo) sbocco di malumore. Al tempo dei bilanci, ma non saggi, non rassegnati
cioè, anzi piuttosto incattiviti: “Ho fallito anche nella carriera
impiegatizia, oltre che nei rapporti affettivi, nel riprodurmi, nel convivere,
nel matrimonio, nel tradire, nell’essere tradito, nella lotta alla blattella
germanica, in tutto. Adesso sono in pensione. Faccio un cazzo”. È l’occupazione
del “tempo libero” del pensionato, che
ne ha molto, il racconto “dell’osservazione diretta dei fenomeni esodomestici,
della micro-storia evenemenziale sotto casa”. Opera di “uno dei tanti piccolo
borghesi intellettuali falliti”. Cioè scontento di sé? Statisticamente è tutta
piccolo borghese l’umanità urbana - e anche quella di paese, iperconessa
anch’essa. Intervallata da sapide annotazioni alla Verdone di cose
viste\sentite.
Una costruzione originale.
Seppure in selfie, col grand’angolo,
col fisheye e tutto. Politicamente
ipercorretto. Con la nostalgia\rivendicazione dell’essere comunista – la deriva
socialista essendo finita in “un mesetto di carcere”, per essere passato
contemporaneamente al ministero tra “quelli che prendono i soldi”. Anche quando
il Partito vuole il borgo distrutto con le ruspe per costruirci i palazzoni
popolari. Con Lenin onnipresente, di fronte, di profilo, e anche di dietro,
guardandone la nuca - con masse di anarchici che nelle papaline fornaci lo
attendono, anche se non lo conoscono, nelle due ore che il futuro bolscevico ha passato a
Roma, fra un treno e l’altro. Ma poi non si capisce: di Lenin si ricorda che il
“socialista Mussolini” definì “come «l’unico capace di fare una rivoluzione in
Italia», previsione avveratasi”, due cose non vere. E dello Stradone si pone il
dubbio se non sia “l’allestimento scenico di un reality a bassa intensità”, la
solita vita che imita l’arte.
Una storia in agrodolce, si
sorride – anche di Lenin, che il nemico Bogdanov ha battuto agli scacchi, ai
bagni di Tiberio, a Capri. Con alcuni repertori. Il “falso” iniziale – che farebbe crollare di like la stessa facebook, patria
dei falsi. Roma “città di turisti”, eccetera. L’essere anziano. Un po' di voyeurismo, con la storia immancabile del rapporto in chat - che in chat viene meglio. E
brevi incisi d’autore. La “mistica” dello sfasciacarrozze, delle micro-macro
ammaccature. Il trotto rallentato del pensionato “con microcane”. Il figlio
mancato, altra sintesi svetoniana del
presente a futura memoria (“prima avevo da lavorare, poi Clara aveva da
lavorare, poi ero depresso, poi non avevo una lira, poi ho divorziato, poi ero
ancora depresso, poi avevo ancora da lavorare, poi non avevo fidanzate, poi la
galera….” – qui si sarebbe voluto sapere di più). La chimica del tramezzino,
che rimanda a “diner con distributore
di benzina a margine di strada americana che corre su prateria sconfinata”. Passando
per il caffè di palazzata, “privo di qualità”, anche il luogo, oltre che la miscela, “come
moltissimi bar della Città di Dio”. Aspettando che sulla via Olimpica passi -
la domenica pomeriggio? il sabato sera? -
‘a Squadaa, sul torpedone lampeggiante, sotto scorta vigile.
Una filippica piana, ma senza
vie di fuga. Senza risparmiarsi-ci nulla: l’università come intrigo, il
Maestro, il naufragio “nella stanza di un Ministero”, ai Lavori Pubblici,
vincitore di concorso, addetto ai contatti con le Belle Arti, “con le
dottoresse della Soprintendenza – tra le persone più ottuse del Pianeta”. Hombre del Partido, anti-americano il
giusto.
Tutto vero, probabilmente.
Eccetto che per la sabbia - ma è un errore comune: quella che la pioggia lascia
sulle macchine non è “del grande deserto africano”, è della nube o fungo di
polveri e gas che da decenni sovrasta immobile la Città di Dio – arrivandoci
dal Sud all’imbrunire, all’altezza di Monte Porzio, quando si comincia a
scendere, la nuvola di smog si vede immota sulla città, di cui segue con
precisione millimetrica i contorni.
Notevole la fascetta editoriale: “La descrizione del nostro tempo più acuta, impietosa ed esilarante che avrete forse mai letto”. Eccetto che per il “nostro”: di chi? Il day-to-day del pensionato è una scommessa, rischiosa, rasentando le lettere dei romani (pensionati) a Paolo Conti o al “Messaggero”. Di una vita facile che si fa difficile, uscendo ogni mattina a confrontarsi con tutte le cose che non vanno, che sono tutte. Ce n’è anche per se stesso. Se non nelle forme del razzismo, sessismo e conformismo, in quelle del disincanto. Tutto vero, perché no, ma con un appunto, anche qui: chi è conformista? Lo scrittore no, è combattivo – o: si fa sempre in tempo a disperare. Specie Pecoraro, che fatti i settant’anni vuole raccontare un altro racconto, inedito anche come genere, anomalo, sulla scia del primo, “La vita in tempo di pace”.
Notevole la fascetta editoriale: “La descrizione del nostro tempo più acuta, impietosa ed esilarante che avrete forse mai letto”. Eccetto che per il “nostro”: di chi? Il day-to-day del pensionato è una scommessa, rischiosa, rasentando le lettere dei romani (pensionati) a Paolo Conti o al “Messaggero”. Di una vita facile che si fa difficile, uscendo ogni mattina a confrontarsi con tutte le cose che non vanno, che sono tutte. Ce n’è anche per se stesso. Se non nelle forme del razzismo, sessismo e conformismo, in quelle del disincanto. Tutto vero, perché no, ma con un appunto, anche qui: chi è conformista? Lo scrittore no, è combattivo – o: si fa sempre in tempo a disperare. Specie Pecoraro, che fatti i settant’anni vuole raccontare un altro racconto, inedito anche come genere, anomalo, sulla scia del primo, “La vita in tempo di pace”.
La breve nota rimanda a una
bibliografia tecno-storica-architettonica. Un epilogo la precede per dire che
nei cinque anni di stesura del libro il terreno vago “attorno al rudere del
vecchio Hoffmann è entrato in una fase di intense modificazione: costruiscono
una singolarità commerciale”.
Costruiscono un centro commerciale – naturalmente con restauro del vecchio
Hoffmann, che sarà “centro culturale”, eccetera. E lo studioso dell’arte riemerge
dalla pensione: “I centri commerciali sono la nuova agorà della città”.
Francesco Pecoraro, Lo stradone, Ponte alle Grazie, pp. 446
€ 18
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